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Mitologie

di Gianfranco Palmery

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Gianfranco Palmery

 

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Recensioni del libro Mitologie di Gianfranco Palmery

 

GIANFRANCO PALMERY. MITOLOGIE

di Lucio Felici

In altri spazi si muove la poesia di Gianfranco Palmery, anche lui romano, ma della nuova generazione. Nella sua breve raccolta (Mitologie, Edizioni Il Labirinto, Roma 1981) non si scorgono tracce di appartenenza a gruppi o scuole, né riferimenti espliciti a concetti storico-sociali: semmai, nell’uso distillatissimo del verso, rastremato fino a una linea musicale stridula e sottile, addensato sull’immagine più contratta e vibratile, si può indovinare, di lontano, la lezione dei grandi decadenti e simbolisti francesi. Quella di Palmery è una lirica raffinata e crudele, che si accanisce sull’anima e sul corpo per demolire ogni trucco o mitologia, in un angoscioso e impietoso agonismo dell’«io» con se stesso, in un incessante spiare di moti furtivi, scatti felini (l’immagine ricorrente del gatto) tragicamente – e ironicamente – proiettati in cortei di fantasmi e tenebre:

Verità della vita, menzogna
e morte, vi riconosco, da sempre
mie innamorate scorte... (p. 19).

Non la morte, non la poesia, soltanto
le tenebre: le chiamo e subito
accorrono, si accalcano – io le ricevo da re,
da re morente, abbandonato sul letto...
Per tutto il giorno sfilano discrete
o si affollano al mio capezzale come
intorno a un trono (p. 21).

Dove l’ultima salvezza (o illusione di salvezza), nel deserto della rinucia e della «inazione» (il «letto» è l’emblema di una scelta valetudinaria) è la resa con «regalità».

«Studi Romani», XXX, 3, Luglio-Settembre 1982


SU PALMERY E MITOLOGIE

di Raffaele Pellecchia

La poesia di Gianfranco Palmery appare tutta risolta all’interno di una compitazione «lirica raffinata e crudele, che si accanisce sull’anima e sul corpo per demolire ogni trucco o “mitologia”, in un angoscioso e impietoso agonismo dell’io con se stesso, in un incessante spiare di moti furtivi, scatti felini […] tragicamente – e ironicamente – proiettati in cortei di fantasmi e tenebre» (L. Felici). La poesia di Palmery è una poesia postuma: è la registrazione di una sconfitta esistenziale e dei rari e già saputi fallimentari tentativi di fuga, ovvero l’ipostasi dell’ineludibilità della resa: i suoi emblemi sono Amleto, il catoblepa che divora se stesso, Don Giovanni all’inferno, il Minotauro prigioniero nel labirinto. La condanna consiste in una irreversibile coazione a ripetere «l’ininterrotto melodramma» in una esistenza «senza destino e senza destinazione», osservata e giudicata con saggezza retrospettiva; e, perciò, senza scatti e senza illusioni, senza «neppure più la furia il rancore», sul piano inclinato di una stupida ebetudine. Dal versante di una coscienza adulta e disillusa, che la sa «lunga sul trucco e sul trucco dei Trucchi / e su tutti i trucchi», Palmery gioca il suo ruolo di giocatore perdente, apparecchiandosi a riscattare ogni residua dignità nell’accettazione della perdita: «Non la morte, non la poesia, soltanto / le tenebre: le chiamo e subito / accorrono, si accalcano, – io le ricevo da re, da re morente, abbandonato sul letto […]»: così avviene il riscatto, e la catarsi: attraverso un rito in cui il poeta diventa sacerdote di se stesso e mediante il quale riacquista la sua regalità e persino la sua divinità (o demonicità che è lo stesso). Ma la calma «è solo / un’altra forma di pena»: ovunque consiste «l’acerbo / ossimoro d’essere vivi / e mortali», e ogni finto fulgore vitale porta i segni della sua prossima morte, tornando «a un minerale / ordine elementare». Si tratta, come si può cogliere dai brevi lacerti riportati, di una poesia che rinvia con il suo sigillo aristocratico e prezioso, con la sostenutezza del suo tono e l’elezione del suo lessico, a certe vaghe ascendenze decadenti (Verlaine più che Mallarmé o Rimbaud), da rintracciarsi sia nell’area latina che in quella anglosassone, con in più una costante tensione al gesto e all’intonazione drammatica, in una sorta di recita senza pubblico e senza teatro, con spettatori assenti eppure supposti che consentono al linguaggio di caricarsi emotivamente, risparmiando al poeta-attore l’impudicizia dell’esibizione.

La poesia nel Lazio, Forum / Quinta Generazione, Forlì 1988

 

 


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