La
salvezza
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Francesco Dalessandro
Dello stesso autore
L’osservatorio
Lezioni di respiro
Ore dorate
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Recensioni
del libro La salvezza di
Francesco Dalessandro
LA SALVEZZA
di Carlo Bordini
È uscito da poco, in una bella collana delle Edizioni
Il Labirinto dirette da Gianfranco Palmery, di Francesco Dalessandro,
con sei disegni di Giuseppe Salvatori, La salvezza. Francesco
Dalessandro guarda il mondo con l’ingenuità di un bambino,
di un bambino coltissimo, raffinato, ma soprattutto incantato. Se un lettore
trova in queste poesie parole come «film giallo» o «bar»
(ma questo avviene assai raramente, a dir la verità) trasalisce
involontariamente, perché esse contrastano col tono generale di
questi versi, fatti di nuvole che trascorrono e di uccelli che volano.
Tutto, anche i drammi del cuore, sono mediati da questo stile terso. È
difficile staccarsi dal fascino di queste poesie, così inattuali
e in cui la realtà è ricoperta come da una patina di grazia
che annulla i lati volgari della realtà, da questa «gloria
della forma». Ma nella piccola sequenza Spine, questa guaina
viene bucata con accenti strazianti, sorprendenti, di cui conviene citare
larga parte: «Vivi qui, ma lontana. / Mai prodiga, anzi avara /
di tutto che amo e è tuo / come d’essermi cara: così
sei. / Hai spesso dinieghi / ostinati e furtive ripulse. / Anche quando
ti lasci / andare (quale dolce / minaccia ti convinca / io non so mai),
consenti / solo a metà, con quella / parte di te che giudica /
– e non ama». E ancora: «Ti giri. Cerchi il sonno /
e la dimenticanza. / Trovi un ricordo che è / pena. Respiri appena.
/ Sei lontana. Non sono / niente. La stanza fluttua / nel semibuio, tra
la luce fuori / e la tenebra dentro. / È buio anche nel cuore.
/ Nel mio stretto / d’affanno. Nel tuo / sordo». Dalessandro
è un magnifico poeta di altri tempi che non si è ancora
deciso ad aderire ai ritmi spezzati di questa epoca, che non ha ancora
deciso (e forse non lo deciderà mai) se scrivere o non scrivere
versi in volgare. Ma questa, in definitiva, è la sua forza e il
suo fascino.
«L’Unità», 8 novembre 2006
FRANCESCO DALESSANDRO
LA SALVEZZA
di Giancarlo Pontiggia
Di Francesco Dalessandro (abruzzese d’origine –
è nato a Cagnano Amiterno nel 1948 – ma residente a Roma
dal 1958) già mi avevano colpito i raffinatissimi, geometrici esercizi
di Lezioni di respiro (Il Labirinto 2003): «sonetti doppi,
spesso caudati – come recitava la nota editoriale – tutt’altro
che canonici, disposti a specchio su due pagine [...] il secondo sonetto
che colloquia o confligge con il primo». La salvezza, volumetto
forse di transizione a una futura raccolta, ma già in sé
compiuto, è la conferma di quanta vera poesia sia rimasta occultata,
nelle generazioni del primo dopoguerra, per la fatale oppressione dei
codici neoavanguardistici e informali imperanti almeno dal ’63 in
avanti; lo stesso autore, nella nota conclusiva al libro, ci informa come
queste poesie fossero state scritte tutte (con un’unica eccezione)
durante i primi anni Ottanta: «in ritardo e disperse», dunque,
vengono solo ora alla luce dopo una lunga «dilazione». Quanti
versi di allora, già entrati nei troppo ideologici e spesso incauti
canoni della contemporanea poesia italiana, saprebbero gareggiare con
questi? Ma i referenti poetici di Dalessandro erano (e restano) precedenti
alle svolte degli anni Sessanta-Settanta – Bertolucci, Montale e
Saba, in primis –, benché rielaborati in una temperie
storica e linguistica nuova, e dunque aggiornati in virtù di una
tecnica preziosissima che recide il verso pur serbandone la dolcezza originaria,
come in questa Sera al mare: «Tu qui, pacatissimo amore,
/ a perderti intanto che densi / nuvoli stanno / minacciosi e incombenti
/ e uccelli a coppie ancora / svolano, bruni lampi, / lungo riva; qui
sosti, / a cuore leso, in questo / bar (e non ti sia peso / l’attendere)
in questa / luce che vira, dolce- / mente rosata incontro / al buio...».
Dalessandro, insomma, appartiene a quella schiera di poeti che non ha
mai ceduto alla tentazione di essere nuovo, anzi novissimo,
ma ha sempre obbedito a ragioni più profonde, esistenziali e letterarie
insieme, rinnovando la tradizione senza annientarla o dissolverla in ambigue
– e facili – ironie corrosive. Della finezza dei suoi esercizi
metrici valgano le lievi varianti delle parole-rima nella Sestina
di maggio, o l’uso delicatissimo del settenario (metro preponderante
in questo volumetto), che nel secondo movimento di Spine (vocabolo
poetico di sabiana memoria) è elaborato in virtù di una
sintassi franta nei primi nove versi (con l’interruzione di un endecasillabo
al v. 7), per celarsi negli ultimi tre, dove ruota intorno al vocabolo
tematico «affanno» («Nel mio stretto d’affanno»;
oppure: «d’affanno. Nel tuo sordo»): «Ti giri.
Cerchi il sonno / e la dimenticanza. / Trovi un ricordo che è /
pena. Respiri appena. / Sei lontana. Non sono / niente. La stanza fluttua
/ nel semibuio, tra la luce fuori / e la tenebra dentro. / È buio
anche nel cuore. / Nel mio stretto / d’affanno. Nel tuo / sordo».
Di ispirazione tenue e di tonalità elegiaca, nutrita di malinconie
e febbri esistenziali – non senza inquietanti accensioni visive
–, questa raccolta di Dalessandro vive nella rarefazione e concentrazione
delle immagini e dei pensieri: cieli soprattutto, solcati da voli d’uccelli;
fiori, alberi e aiuole, su cui si misura per analogia «l’intrigo
del cuore» (p. 24); e soprattutto lo sfondo del paesaggio romano:
non solo sfondo, anzi, ma «teatro dei miei versi», come si
può leggere in una misuratissima prosa uscita, contemporaneamente
al volume, sulla bella rivista romana «Pagine» (maggio-luglio
2006, pp. 10-11). Nella quale ritroviamo la stessa interrogazione tematica
(«Quasi che scrivere rappresentasse la salvezza») su cui si
conclude (nella forma di una sestina a due voci in amoroso contrasto)
la raccolta, dandole anche il titolo.
«Testo», XXVII, 52, luglio-dicembre 2006
LA SALVEZZA
di Alberto Toni
Nell’ultima raccolta di Francesco Dalessandro,
La salvezza, i versi compongono un quadro naturale: «Di
poesia in poesia la vita ferve: nell’umile slancio verticale di
arbusti e fiori, in zampettii d’insetti e voli d’uccelli e
umani abbracci». Tengono il passo dei classici queste composizioni,
nel solco della tradizione lirica novecentesca: versi brevi, assonanze,
e quel clima che rimanda a certi passaggi pascoliani, rivisitati e riletti
alla luce dell’esperienza personale: «Un solo e vivo / volo
tarda alla gronda: / la rondine che sbanda per amore, / garrula e smemorata».
Amore e natura, il Novecento, ma anche un rimando alla poesia latina,
le tracce dell’elegia, della viva e indelebile presenza del mondo
circostante, osservato, amato e raccontato attraverso suoni, movimenti
e colori: «Ti giri. Cerchi il sonno / e la dimenticanza. / Trovi
un ricordo che è / pena. Respiri appena». Il vivere faticoso
è minacciato dalla morte, «evocata e in chiusura richiamata».
La salvezza, dunque, appare soltanto un’illusione: «Non c’è
salvezza qui».
«Avanti!», 1 febbraio 2007
LA SALVEZZA
di Fabio Ciriachi
C’è un fitto intrecciarsi di temi e di rimandi
nelle ventitre poesie de La salvezza (tutte – tranne una
– relative ai primi anni Ottanta) per lo più attinenti all’amore
coniugale; o meglio, a quello stato dell’anima che deriva dalle
alterne fortune cui questo tipo di rapporto espone. Stando alla poesia
che apre la raccolta, in corsivo, hanno peso i ricordi che «molesti
o cari, pungono», come le spine della poesia omonima di pagina 34
la cui epigrafe, da Saba, parla di «culmine del mio dolore umano»
e nella quale un verso ripete esplicitamente: «Trovi un ricordo
che è / pena». Ma non si pensi a un trionfo della nostalgia.
Il passato, che i ricordi vivificano, ha un peso non così superiore
al presente, spesso colto in presa diretta da poesie di una freschezza
impressionista, o rappresentato da riflessioni che, come nella poesia
I cormorani (pag. 46), si concludono con un taglio decisamente
politico.
Protagonisti sono gli uccelli, che Dalessandro osserva con occhi divinatori
cercando nei loro voli un segno, l’alfabeto segreto di una risposta:
«Da dietro il tomboleto / rotondo apparsi due / gabbiani a volo
teso radono / l’acqua appaiati, poi / s’alzano lenti a perdersi
/ tra nuvoli candidi, lesi. // Io cosa a quest’immagine / così
trasparente ora leghi / non so dirti, né altro che s’affidi
/ alle minuzie di questa mattina / domenicale e perfetta che si compie».
(Domenica al mare, pag. 28).
L’apparire degli uccelli sulle pagine è graduale, come graduale
è l’apparire dell’immagine sulla carta fotografica
durante lo sviluppo. Si va dal «vago volo» de L’approdo
(pag. 16) a La rondine di pagina 19, alla «quaglia e il
cuculo» di Sera (pag. 21) che danno inizio alla nutrita
sequenza delle coppie. «Ruta e rosmarino convivono» (L’aiuola,
pag. 24), «la coppia di gabbiani» (Gli uccelli, pag.
26, in cui appaiono anche l’upupa e le tortore), «due / gabbiani
a volo teso radono / l’acqua appaiati» (Domenica al mare,
pag. 28), «e uccelli a coppie ancora» (Sera al mare,
pag. 29), fino alla poesia Coppie di pagina 37.
Emblematica di questa tensione duale è Piccola elegia notturna
in cui, in delicata filigrana (la poesia è dedicata alla figlia)
si celebra, attraverso la sintassi, l’apoteosi del duplice: «magnolia
alta fiorita», «il suo profumo dolce e / così intenso»,
«lampi che in guizzi e / zirli», «nubi / vagabonde e
pigrissime», «il silenzio / brevissimo fra due / suoni»,
«tutto, / tutto che senti e vedi», «per l’età
e l’avvenire», «sola speranza lecita».
Oltre agli uccelli già nominati ci sono I gabbiani (pag.
44): qui la sorpresa («Non ne avevo mai visti / tanti così
volare a bassa quota», «non ne avevo / mai visti tanti insieme»,
«mai visti / a stormo tanti su quell’acqua», «io
non ne avevo visti / mai così tanti») riecheggia il dantesco-eliotiano:
«Una gran folla fluiva sopra il London Bridge, così tanta,
/ Ch’i non avrei mai creduto che morte tanta n’avesse / disfatta»
de La terra desolata.
Ci sono poi I cormorani (pag. 46), poesia nella quale il gioco
delle nominazioni si volge al passato a chiamare in causa i nobili antecedenti,
e così, nel bel finale, prima della drammatica chiusa, si dice:
«ho pensato / a uccelli di terra e di mare / forti e belli come
loro che i poeti / hanno cantato, all’upupa / calunniata da Foscolo
al passero / solitario di Leopardi all’usignolo / di Keats all’allodola
di Shelley / all’albatro di Baudelaire al canarino / di Saba e a
tutti gli altri celebrati / nei versi – / poi mi sono ricordato
/ del cormorano del Golfo, le penne / ingrommate di petrolio...».
Ci sono, da ultimo, gli storni della poesia omonima.
Un’attenzione particolare merita il testo che chiude la raccolta
e le dà il titolo. La sua forma a strofe alternate in corsivo e
tondo, oltre a rappresentare un altro elemento della ricorrente dualità,
oltre agli espliciti riferimenti al senso profondo della coppia «(tu
ascoltala!) anche fosse / nel male che ci unisce»,
«la formula che incanta / bene o male ci lega non ci salva»,
annuncia quella che sarà la struttura portante del bel libro futuro
(ma stampato prima), Lezioni di respiro (Il Labirinto, 2003),
articolato, appunto, su sonetti a coppie, dialoganti tra loro (l’uno
sulla pagina di destra, l’altro su quella di sinistra), sorta di
confronto inesausto in cui il tema del rapporto a due e del rapporto con
la natura si spinge a esplorare altri territori del mai troppo frequentato
dominio amoroso.
Dalla nota a fine libro, che ha per titolo In ritardo e disperse,
attraverso una metafora marinara mutuata da Conrad, sappiamo di come le
poesie qui raccolte siano arrivate, dai primi anni Ottanta, «sane
e salve a destinazione».
Le tre epigrafi sulla salvezza che precedono l’incipit – da
Martin Heidegger, da Giorgio Manganelli e da Paul Wühr – forniscono
un utile spunto di riflessione sul destino di quelle poesie che, al contrario
delle presenti, essendo «mancanti, disperse o perdute, restano affidate
alla misericordia del ricordo che a volte ancora […] ne suggerisce
o detta versi isolati o strofe».
Sei delicati disegni di Giuseppe Salvatori, quasi istantanee di una metamorfosi
in corso distribuite qua e là tra le pagine, accolgono piacevolmente
gli occhi nel cammino da una poesia all’altra.
«Pagine», XVII, 50, gennaio-marzo 2007
LEZIONI DI POESIA
di Domenico Vuoto
Con tutte le varianti verbali e predicative del caso, smania è
parola ricorrente nei versi di Francesco Dalessandro. La si trova ne L’osservatorio,
in Lezioni di respiro e, seppure in forma sinonimica, nella sua
più recente raccolta La salvezza.
La smania non è un sentimento vero e proprio. È piuttosto
una condizione del corpo e dei sensi, così come pure del cuore
e della mente. È stato penoso di urgenza e di allerta in cui si
condensano di volta in volta agitazione, ansia, insofferenza. E desiderio
carnale che richiede di essere immediatamente appagato. E tuttavia la
smania consegue spesso a un sentimento (o a una pluralità di sentimenti),
ne è la verifica; convoglia quanto di esso (o essi) è rimasto,
sottraendosi all’opera del tempo: echi, fantasmi, detriti. Nella
poesia di Dalessandro diventa parola-chiave, innesco di un conflitto tra
constatazione disincantata dell’oggi e rammemorazione-confessione
meditata e commossa – mai compiaciuta – del passato. Rammemorazione
pervasa da una nostalgia degli smarrimenti, degli astratti e materiali
furori adolescenziali e giovanili; di una sensualità a tratti estenuata,
dell’amore e del sesso già allora minati dall’inquietudine
e da un presentimento di disinganno o di cessazione.
La nostalgia, sentimento dileggiato in un’epoca in cui si richiede
di «fare» e «guardare sempre in avanti», è
motore costitutivo della poesia. È viaggio verso la terra perduta,
verso un possibile senso da affidare alla vita, o «narrazione»
dell’impossibilità in parte o in tutto di tale affidamento.
La nostalgia nella poesia di Dalessandro ha il compito di raccontare la
pena di un approdo negato, l’illusione e la delusione – leopardianamente
intese – che ne scaturiscono.
Tuttavia, ne L’osservatorio come nella bellissima raccolta
Lezioni di respiro sono delineati (narrati) con puntigliosa precisione
anche i luoghi fisici della nostalgia e la loro dislocazione nel tempo
e nell’interiorità del poeta. È una geografia e toponomastica
riconoscibili che implicano viaggi, percorsi, scoperte, epifanie nella
città di adozione – Roma – e nel paese natale, Termine.
Nel pervasivo celebrato fulgore del Pincio, di piazza di Spagna, del Vaticano,
e dei più vicini Pineto e Monte Mario, così come nella bellezza
di Termine innevato. C’è da dire che la neve con il suo precipitare
felpato, con i suoi silenzi costituisce uno degli esiti più alti
e avvincenti di Lezioni di respiro.
La poesia di Francesco Dalessandro è di composta classicità
e grande nitore verbale, sia che si esprima nella forma narrativa del
poema e dell’elegia distesa, sia che si rivesta dell’agilità
epigrammatica dell’ultima raccolta. E però conviene diffidare
della pacatezza poetica di Dalessandro. Se non altro, perché ad
essa non corrisponde alcuna pacificazione o resa alla realtà. Conviene
leggere e rileggere i suoi versi per scoprire come tale compostezza sia
profondamente innervata di smania o ansia e di un sentimento del vivere
sul quale grava incessantemente una percezione di dolorosa inermità
e di sconfitta, di smarrimento e di esilio. Dov’è allora
il varco?, verrebbe da chiedersi parafrasando Montale. L’ultima
raccolta di Francesco Dalessandro, La salvezza, repertorio di
folgoranti osservazioni naturalistiche, (si veda, tanto per fare un esempio,
la splendida concisione de L’erba: Perché tenerissima
inclina / verdeviva gli steli dal- / l’aiuola ai vetri poi / che
fa notte o gela, / la riscopri rinata / per miracolo all’ansia /
mattutina); La salvezza, si diceva, non propone, come sembrerebbe
dal titolo, vie salvifiche d’uscita. Se di salvezza si può
parlare, essa consiste proprio nel sentimento di una improbabile o, quanto
meno, impervia salvezza. Che dall’ostinazione (e dannazione) della
poesia e del lavoro poetico fa discendere un distacco, una stoica considerazione
della vita e delle forme viventi affrancata finalmente dall’ansia
e dall’affanno. Dalla smania, appunto.
«L’immaginazione», n. 234, ottobre-novembre 2007
LA POESIA DI FRANCESCO DALESSANDRO
di Rosa Salvia
da «Polimnia»
La salvezza nel suo idillio quasi virgiliano
accoglie la freschezza e i dubbi dell’età più giovane.
Le poesie raccolte furono scritte intorno agli anni ottanta. Anche in
questi versi, come in Lezioni di respiro, si fondono l’ideale
oraziano dell’otium e il ripiegamento nel privato con un autentico
attaccamento alla vita e alla natura. [...] (per
la recensione completa)
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