Lezioni
di respiro
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Francesco Dalessandro
Dello stesso autore
L’osservatorio
La salvezza
Ore dorate
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Recensioni
del libro Lezioni di respiro
di Francesco Dalessandro
FRANCESCO DALESSANDRO LEZIONI DI RESPIRO
di Sauro Albisani
Leggo nella scansione endecasillabica della poesia di
Francesco Dalessandro la ricerca di un ritmo che garantisca alla vita
interiore quella minima misura pneumatica necessaria a sopravvivere nell«aere
grasso» dellinferno quotidiano. Il respiro vuol essere forse
preghiera del cuore, che sappia guarire il cuore dallansia, dalla
tachicardia, dalla paura. Anche nella simbiosi bifronte che si realizza
ad ogni coppia di sonetti sembra evocato quel disperato sì alla
vita, quella lode alla vita che pur suo malgrado il vivente testimonia
col respiro e col suo ritmo binario: inspirazione, espirazione. Come dallespirazione
si torna allinspirazione, così nellitinerario lirico,
e nella struttura dellopera, dalla maturità si torna allinfanzia.
Quello che si delinea è il perimetro della vita di un uomo, sia
laia del pozzo o il giardino delle tartarughe: il poeta è
un geografo che lascia una mappa della propria mente. Una mappa circolare.
Ripensando il libro in silenzio, si sente il canto delle cicale: la cicala-lare,
la cicala-musa, il perenne ritorno del suo canto. È la sua nota
lautentico e segreto e naturale filo sonoro che lega i sonetti della
maturità a quelli dellinfanzia? Questo canto aleggia sulla
terra di un poeta stanziale ma che nello stesso tempo, con un diarietto
in mano, fa (autour de sa chambre) un cammino di conoscenza.
Etologo di se stesso, analizza i sentieri filogenetici dellanimale-poeta
(specie non più protetta). Scienziato e attore, fa e rifà
le prove del difficile «teatro dei versi».
Si può sospettare che spesso, per una forma di saggezza ereditata
dalla madre, elegga la cucina come laboratorio dei suoi esperimenti. E
si tratta indubitabilmente di esperienze morali. «Non è compito
della poesia dare un senso alla vita»: cercarlo, però, è
la sua condanna. Ciò rimanda allidea classica, senechiana,
del fine morale implicito nella conoscenza. Se poi si chiedesse in che
cosa si concretizza il fine medesimo, credo che lagonista di queste
psicomachie risponderebbe che la maturità è autocoscienza.
Fedele al compito che si è scelto, il poeta accetta con sopportazione
(ma non con rassegnazione) lo sdoppiamento tra i panni impiegatizi (dentro
i quali sente di non essere impiegato) e i panni curiali di umanistica
memoria, con cui «cambia pelle», diventa un predatore domestico,
in agguato per agguantare loccasione. E proprio in questo potrebbe
essere individuata la poetica di Dalessandro: «loccasione
fa il poeta». Ma bisognerà subito aggiungere che ciò
che poi fa la poesia e non di rado la migliore è
una costante apertura al dialogo che lascia la parola anche allinterlocutore,
a dispetto dell «egotismo dei versi». Laltra voce
diventa testo nel quale si oggettiva il cammino di autocoscienza, dolorosamente
necessario, del poeta. Voce interlocutoria; voce accusatoria. Un colloquio
o un conflitto? Volendo giocare (giocare sì, ma forse non in modo
del tutto sterile) con le parole, si potrebbe rispondere: un colloquio
conflittuale, un conflitto colloquiale.
Stanza dopo stanza, lo spazio lirico si disegna: questi sonetti sono altrettante
pupille riflesse, sguardi di specchi che restituiscono lo sguardo del
poeta il quale osserva se stesso: la sua è larte duno
sdoppiamento-olocausto in cui lio della mente immola lego
di tutti i giorni per raggiungere la maturità, ossia non laffrancamento
dalla miseria, ma già lo si è visto la coscienza
della miseria stessa.
Stante che il polline del poeta è il dolore, nel libro non cè
nulla di pleonastico: perfino la coda del sonetto sta a significare uninsopprimibile
vitalità del pensiero (anche staccata continua a guizzare!), ma
anche la «dilezione» (parola cara allautore) della vita,
la petizione di un senso ulteriore, di un plusvalore ontologico.
Lezioni di respiro ci consegna (con onestà, donde la sua
autorevolezza mai gridata) un autoritratto a minore, ma non autoparodico
bensì illuminato dal sorriso affettuoso, necessariamente amaro,
spontaneamente dolce, dellironia (un passo come questo contraddice
ciò che sta dicendo: «[
] incapace dironia ti
sei messa / su una cattiva strada mia / poesia ») e della
consapevolezza guadagnata faticosamente sul campo, come si legge, per
non più dimenticarla, nella chiusa dellImitazione
bertolucciana: «[
] Non serve e non vale / oggi incidere versi
se in giardino / anche il merlo riposa sugli allori».
«Pagine», XV, 42, settembre-dicembre 2004
FRANCESCO DALESSANDRO – LEZIONI
DI RESPIRO
di Idolina Landolfi
Terza raccolta poetica dell’autore, suddivisa in
sezioni che paiono procedere dall’esterno verso l’interno,
a partire dalle prime Cronache della luce, frammenti di un discorso
amoroso che si dipana all’ombra della grande tradizione: incipit
di ammirevole eufonia, un verseggiare di squisita fattura, frutto di sapienza
compositiva e sonora, e rinnovato nel fraseggio che segue spesso il ritmo
spezzato dell’esperienza intima, del tumulto del cuore. Amore e
poesia paiono sempre più inconciliabili («la felicità
amorosa è l’anestetico dei versi?»), il sontuoso teatro
della natura, così presente e vivo nel volume, è evocato
a testimoniare un dialogo impossibile, e il fermo lamento «di colui
che non trova pace né riscatto». Ciò che sta dietro
al fare poetico, «ciò che siamo cos’è la poesia
da cosa nasce» è l’oggetto della costante interrogazione,
ma anche il proprio essere nel mondo, con la fitta rete dei rapporti che
ad esso ci legano. Così, nelle sezioni successive, Lezioni
di respiro, La sirena-infanzia, Figure e ombre,
le liriche più chiaramente sfilano come un vero e proprio diario
in versi, col trapasso delle stagioni che divengono stagioni dell’anima,
e il bagaglio della vita che aumenta e si aggrava: «Un verso è
la sutura del vero lo spago / con cui ricucio ogni volta il mio sacco
/ di ricordi e affetti –». Fino all’ultima sezione,
abitata dalle ombre vere, i fantasmi dei morti, dove più acuta,
penetrante come spada si fa la riflessione sul proprio passato che si
precisa come passato di parole; e la poesia è davvero esercizio
quasi coatto, «per non morire». Il minuscolo personaggio della
tartaruga, ricorrente nella raccolta, torna un’ultima volta col
suo simbolo primo, la difesa; e, come già Leopardi, «Questo
di tante speranze mi resta» scrive Dalessandro con aperta citazione
«il calore di un pallido sole / che illude tutti, i testardi animali
corazzati contro le offese naturali / e anche i poveri poeti indifesi
[…]».
«La Sicilia – Stilos», 8-21 novembre
2005
La poesia di Francesco
Dalessandro
di Rosa Salvia
Recentemente ho avuto modo di leggere tre bellissime sillogi del poeta
Francesco Dalessandro: Lezioni di respiro (Il Labirinto 2003),
La salvezza (Il Labirinto 2006) e Ore dorate (Il Labirinto
2008), quest’ultima quasi un’appendice a Lezioni di respiro.
Dalessandro affronta la scrittura come una rigorosa disciplina spirituale
e quasi ascetica, in cui la parola diviene forma privilegiata del viaggio
interiore, della ricerca di una più alta comprensione di sé
e del mondo, la parola pensata, meditata, scelta con certosina pazienza,
mai retorica, talora intesa quasi in senso coreografico, nel senso della
classicità greca: «le parole si piegano danzano cercano un
coro / in qualche angolo di mente dove sole / ma libere fanno teatro coi
miei desideri» (Il consesso).
Il suo universo poetico pare un arcano e seducente labirinto nella tensione
tra labor limae e magnetismo percettivo. Peraltro la composizione di una
lirica che sia anche prosa e la poetica dell’oggetto cui si accompagna
una puntualità lessicale al limite della tecnica consentono un
riferimento a Montale.
In Lezioni di respiro (sonetti doppi, alcuni caudati) gli endecasillabi
sciolti, la sequenza libera, mi riportano alla mente la lettera di Baudelaire
ad Arsène Houssaye, cui il poeta dedica lo Spleen, quando afferma
che la scrittura dovrebbe avere la duttile capacità di adattamento
“ai movimenti lirici dell’anima, alle oscillazioni del fantasticare,
ai soprassalti della coscienza”. Dalessandro consegue egregiamente
questo scopo. La musicalità del narrato porta in sé il palpito
di una suspence: si avverte in essa il quos ego… nettuniano, smanioso,
tempestoso. Ossessivi sono i punti di domanda come se il poeta cercasse,
senza trovarlo, un antagonista, mi vien da dire allo stesso modo di uno
spadaccino che prenda a sciabolate la tenebra: «imparo che furia
/ e convenienze non s’incontrano mai / che l’amore si celebra
nel sangue – / bolle fino alla febbre si stempera e ricade / esangue,
educato tacendo a darsi pena, / “ma nell’intimo si scaglia
/ contro se stesso: è questa la poesia?”». Un ragionare
continuo, pieno di cavilli, che tuttavia contiene un invito al faut tenter
de vivre, al cimentarsi, all’industriarsi al vivere.
L’espressività così originale fondata sul bilanciamento
fra “quotidianità” e “aulicità”
permettono altresì un accostamento alla poetica di Saba. Dalessandro
come Saba predilige i temi quotidiani, familiari, il particolare realismo
affidato a figure esemplari e ricorrenti, l’opzione per una poesia
di sentimento e di riflessione, la fusione di termini familiari e letterari:
«Creatura mia leggera, ecco tornata / la stagione che tanto sospirammo
/ nei lunghi giorni gelidi d’inverno; / volubile e cangiante, primavera
/ è come il tuo sorriso di bambina / o l’umore che oggi ne
disegni / in pioggia gronde rondini fratello / sole e sorella luna, tu
e tua madre».
Tutto scorre e rientra in una parabola circolare di morte-in-vita e vita-in-morte
fra figure e ombre di cari che non ci sono più, ma vivono nel cuore.
«Così tutto ritorna ma più niente / è lo stesso:
l’acqua torbida scivola / silenziosa e s’ingola sotto il ponte
/ mentre un vento leggero nel calore / mattutino dalla polvere bianca
/ morte figure amate ci suscita contro».
La salvezza nel suo idillio quasi virgiliano accoglie la freschezza
e i dubbi dell’età più giovane. Le poesie raccolte
furono scritte intorno agli anni ottanta. Anche in questi versi, come
in Lezioni di respiro, si fondono l’ideale oraziano dell’otium
e il ripiegamento nel privato con un autentico attaccamento alla vita
e alla natura. Gli oggetti divengono numinosi in una sorta di panteismo
religioso, di misticismo materialista che in qualche misura richiama lo
spirito rinascimentale o il deus sive natura spinoziano. Il poeta fa passare
su di sé la natura, le specie sensibili che afferrano e tirano:
«per la misera mica / la formica ritesse / i suoi percorsi: mai
varia / la sua vita; non cosa inerte / l’attira o morta o dolorosa»;
e la ridda vorticosa degli uccelli: la rondine, l’upupa “calunniata
e bellissima”, le tortore brune, i gabbiani, i cormorani, gli storni,
l’ortensia intristita: «il suo cauto fiorire accanto al pino
/ nano è come l’amore», la magnolia in tutto il suo
fulgore nella poesia Piccola elegia notturna dedicata alla figlia Laura.
Ma in questa magia “bruniana” di natura operosa e umani abbracci,
non c’è salvezza possibile: «non c’è salvezza
qui, / non è quest’ansia importuna / e mai paga che può
salvarti / né colmare il tuo vuoto poi che sai / come si muoia
e nel- / l’aria immobile poco / abbia scampo».
Ne Le ore dorate l’inquietudine e il pessimismo sembrano
placarsi lasciando spazio al canto d’amore delicato e sensuale.
Il poeta contempla l’enigma e trae nutrimento dall’amore coniugale
che non è “l’anestetico dei versi” (Lezioni di
respiro) come in gioventù gli veniva di pensare, ma intima connessione
con la felicità poetica. La fenice dell’amore che coniuga
“la vertigine del desiderio con quella tenerezza frutto dell’abitudine”
batte l’aria con ali nuove in questi sette canti che corrispondono
a sette lustri della sua vita coniugale. Dischiude e rivela i suoi contenuti
di una valenza assai più che estetica: emozione e ragione diventano
una cosa sola; esplode la dolcezza degli incontri vissuti con un ritmo
che va dall’antica innocenza a un’altra innocenza, conquistata
attraverso la sofferenza, il dolore, la vita. Sgranano le assenze. I vuoti
perdono i loro contorni. Il poeta palesa quel sentimento che ciascuno
di noi ha inciso nel proprio silenzio, come su pietra, e che nessuna mano,
neppure quella del Tempo, può scalfire. «Qui dove ridente
una voce / bambina in quest’ora di grazia in quest’aria /
accesa risveglia il ricordo luminoso che più / e più vero
rivive e aspettando il tuo ritorno / io scrivo questi versi, la magnolia
sorveglia / l’idillio la severa volontà del nostro amore
/ di resistere e salvarsi, con speranza la guardo / svolare ignara nel
sole e solitaria silenziosa- / mente presto allontanarsi, la piccola farfalla».
«Polimnia», a. V, n. 17-18, gennaio – giugno 2009
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