Terra
e cenere
Il libro
Videoclip
Notizie sullautore
Sauro Albisani
|
Recensioni
del libro Terra e cenere
di Sauro Albisani
PER SAURO ALBISANI
di Luigi Baldacci
A una prima lettura avrei detto che non fosse possibile
una divaricazione maggiore tra il poeta e il suo editore: alludo a Gianfranco
Palmery, responsabile delle edizioni Il Labirinto, che è poeta
anche lui: secondo me uno dei maggiori italiani, e non del momento, ma
così inflessibile nella sua ottica nichilista da costituire quasi
un contromondo rispetto a quello di Albisani. Poi, a guardar meglio, ci
si accorge quanto siano intrise di dolore queste pagine dove linnocenza
fiorisce ma la minaccia è sempre in agguato. Così, fin dagli
inizi della raccolta, dove si parla di colei «Pensa di avermi
ma si sbaglia...» che ha in sua balìa la preda cacciata,
il cacciatore e il cavallo che corre: perché è lei la corsa.
Ma non dimentichiamoci che Sauro Albisani è stato (giovanissimo)
amico di Betocchi, e non era unamicizia a senso unico, se Betocchi
volle che proprio lui si facesse garante delle Poesie del sabato.
È con Betocchi che Sauro ha imparato a essere poeta cristiano da
poeta perfettamente classico e classicista qual era allorigine.
Cristiano significava arrendersi, aprirsi a una comprensione totale per
essere compresi, assorbiti; identificarsi in qualcosa che non siamo: «Terram
et cinerem», è Agostino che parla così nelle Confessioni
parlando di sé. Ed ecco che la distanza tra leditore e il
poeta si accorcia notevolmente.
Sono più di ventanni, a cominciare dall80, che queste
poesie si sedimentano luna sullaltra. Poi sono state divise,
raggruppate secondo argomento, eppure si avverte una continuità
silenziosa: «... non mimporta / che muoia inutilmente il pomeriggio»
(Séguita a compiacerti del tuo male). I pomeriggi non
sono inutilmente morti. Ne è venuto fuori qualcosa che è
appunto «la vita. Sempre la vita...», così diceva Raymond
Carver. E naturalmente la morte.
Quanta presenza di animali in queste pagine. Avevamo due oche tanto
belle: come soavemente inizia una piccola storia di violenza e di
separazione: un apologo forse, ma in sé sufficiente a garantire
il proprio significato. O luccellino accecato o il colombo che esita
tra esterno e interno, che cinvidia, in quanto
«Natura inurbata», la nostra gabbia. Canzonette terribili:
e ce ne sono, alleggerite appunto in forma di canzonetta, specialmente
nella sezione che sintitola Dopo la campana e che appartiene
al vissuto scolastico dellautore o a quello dei suoi allievi: forza
sottile del sentimento tragico. E tra queste si legga la splendida Noi
non vediamo, con la sua ottica dal nulla: il nulla che si
esprime nelle giovani vite.
Il professore, invece, ha piena coscienza di sé: guarda,
non si lascia guardare; e ne trae le debite conclusioni: «... non
fui mai / dovero...» (Grigia o celeste una professione),
per introdurre così una logica della contraddizione secca che ci
fa pensare allultimo Caproni. Dopo unesistenza fatta di lavoro
concreto, di affetti stabili, Sauro Albisani non è contento neppure
lui. Può essere contento della sua poesia, questo sì: nota
a pochi, a chi se lè meritato.
Terra e cenere, Il Labirinto, Roma 2002
ALBISANI, I VERSI DI UN MAESTRO
di Mario Luzi
Significativo prima di tutto come sfondo umano di contemporaneità
questo libro di versi di Sauro Albisani, Terra e cenere, con una
nota critica di Luigi Baldacci. Una condizione quasi deietta, remissivamente
vissuta, talora ironicamente espressa questa lhumanitas
che resta alluomo tale e quale e cioè non confezionato da
nessuna artificiale tribù. È proprio cosi? Oppure quella
mansuetudine non è dimissionaria come sembra ma è una risposta
cosciente allavventurismo di ogni specie. Albisani aveva cercato
Betocchi o Betocchi aveva trovato Albisani? Non sarà un caso che
sono rimasti a lungo vicini, Betocchi con la sua letizia ferita e la sua
carità messa alla prova della pazienza e della conoscenza più
amara, Albisani con la sua attenzione a quella umiltà intelligente
che sarebbe poi stata anche sua. Terra e cenere ne è la
bella prova.
Nei suoi versi i conti con la realtà attuale si direbbero chiusi
ma è ancora in questione linnocenza della nostra giornata
e rimane da spendere un dimesso amore per i poveri di spirito e gli indifesi
che lo reclamano e molta perplessità invece e dubbi di insufficienza
per se medesimo.
Sintomatiche le pagine su di sé, maestro di scuola tutto sommato
solitario come è stato solitario alunno del mondo. Tenere e attente
altre pagine sugli animali domestici e di cortile che popolano anchessi
il suo mondo afflitto ma persuaso si potrebbe dire che la famiglia animale
rende conveniente testimonianza di esso. Ma anche in questo caso la poesia
ha la sua intima festa a mano a mano che trova il suo giusto linguaggio.
Lo trova in questo caso manipolando con spirito e inventiva la classica
lingua italiana, la sua retorica, la sua metrica tradizionale.
«Corriere della Sera», Sabato 15 Giugno 2002
SAURO ALBISANI TERRA E CENERE
di Giuliano Manacorda
Mi giunge nelle belle edizioni de Il Labirinto di Gianfranco
Palmery lultima raccolta di Sauro Albisani accompagnata da uno scritto
di Luigi Baldacci, Terra e cenere, e subito lapro e dal primo
verso trovo «Cè un ragazzo che dorme e sta piovendo»,
un bellissimo endecasillabo che mi riporta – impreveduto –
a Marino Moretti e anche – forse – al Soffici di certe malinconie
romane – e invece siamo alla Marradi di Dino Campana. È appena
lincipit di una raccolta in cui lautore, ben avvisato
cultore della nostra poesia del Novecento, ci dà il suo io più
profondo e più vero nel quale abita anche quel ragazzo del primo
verso che ritroveremo nel settore Scolastiche (ancora una memoria
morettiana?) dove Albisani con problematica fermezza e qualche malinconia
ci dice delle sue esperienze di cattedra da «giovane professorino»,
spoglio di ogni presunta superiorità – «chi / guido
forse mi guida / ... / e questa muta / complicità rende fraterno
il viaggio»: «insegnando ho imparato» – anche
se deve riconoscere che lui insegnante di lettere e di poesia forse sa
di non poter comunicare la lingua dei poeti ai suoi giovani destinati
alle officine e agli altiforni.
Ma è questo, un settore in cui lautobiogafia più diretta
si fa cronaca di memoria (e torna in tono più straziato nella Preghiera
della Quinta classe), ché nelle pagine di Albisani lesperienza
personale è certo il motivo centrale e forse unico ma in un senso
o biograficamente distaccato o sentimentalmente più profondo. Poiché
il tema centrale delle sue pagine è il dubbio del vivere - ma nella
speranza di una sopravvivenza in altra forse indecifrata dimensione. Da
qui un senso di dolore e insieme di fiducia, di problemi, di malinconie,
o di angosce che i suoi versi – dono o castigo – lo costringono
a confessare in unambivalenza psicologica – «soffro
di non soffrire» – che lo condanna allespressione tra
brevi rimpianti, coraggiosi autoesami, vergogne e autolesionismi, straniero
a se stesso.
Eppure, in questa condizione che non rasenta la disperazione forse per
difetto – o per ricchezza – di coraggio, si aprono le pagine
serene della fanciullezza campagnola abitata da giuste presenze umane,
ricca di dolci animali, dove lui poté fare a meno di essere poeta
perché la vita era un impegno felice prima che lapparir del
vero porti la solitudine e la coscienza della propria miseria di uomo.
E allora anche la parola pesa e «il futuro per oscure vie / penetra
nel presente», ormai lontano da uninfanzia irrimediabilmente
lontana, ora che invade la solitudine in una ricerca la cui meta incombe
senza rivelarsi: «In silenzio / guardo la mia miseria. Non so più
/ cucirmi addosso un abito decente».
Ma la poesia, e la figura umana di Sauro Albisani non si arrestano a questa
delusione, ché proprio nel settore del volume che non a caso dà
il titolo alla raccolta ecco che si apre una «rotta», si risveglia
lanima nel petto, si apre una resistenza contro un universo oscuro,
un mondo che sembra volersi fare ripugnante: ma «tu scorri nonostante
tutto, e vivi».
Non è un sussulto di vitalità, è qualcosa di più
profondo che – se non erriamo – ci porta alla ragione prima
del suo vivere e del suo poetare, e ci porta anche allesempio che
più legittimamente è alla radice del gusto poetico e, ancor
più allumano insegnamento di quello che Albisani ritiene
il suo primo maestro, Carlo Betocchi.
Potremmo dire della sua versificazione così agile e pur sempre
così pensosa, potremmo dire di una certa solidarietà fiorentina
fatta di misura e di gusto, ma vogliamo alludere soprattutto a quella
che Albisani stesso definisce «una religio / che si nasconde dentro
le radici».
Nulla di conclamato, ma sofferto e goduto con quella discrezione che è
propria delluomo e del poeta vivo e partecipe di questo nostro tempo
in questa nostra terra.
Nelle ultime poesie, se si fa assillante la ricerca di una «guida»,
poeticamente ci pare risuoni più alta la resa del tormento con
la speranza – o la certezza – di uscirne, di esserne uscito
– e la sua pagina può assumere anche quasi brevi accennti
di un inno alla poesia, al lavoro, alla vita.
Forse la partecipazione e lamore alla «terra» ha ridato
fiamma alla «cenere» che per lunghi tratti della vita e delle
sue esperienze pareva aver costretto Albisani, poiché, come al
ragazzo dal quale siamo partiti nella prima citazione, «il tepore
ha rilasciato i nervi».
«Pagine» - Quadrimestrale di poesia - Anno
XIV, numero 38
SU TERRA E CENERE
di Giancarlo Pontiggia
Nelle edizioni Il Labirinto, che hanno ospitato in questi
anni testi e autori di vera qualità (dalla splendida Fernanda Romagnoli
al francese Jude Stéfan, per dire due nomi di cui poco, se non
pochissimo, e ingiustamente, oggi si parla), esce Terra e cenere
di Sauro Albisani. Luigi Baldacci, nella bella e discreta nota di postfazione,
sottolinea lamicizia del giovanissimo Albisani con un poeta meraviglioso
(uno dei veri grandi della nostra storia letteraria) come Carlo Betocchi,
negli anni così difficili della sua vecchiaia: «È
con Betocchi che Sauro ha imparato a essere poeta cristiano da poeta perfettamente
classico e classicista qual era allorigine». Che la formazione
di Albisani sia classica, lo si riconosce dalla limpidezza del dettato
poetico, dalla precisione delle immagini, dalla naturale inclinazione
alle misure tradizionali del verso (lendecasillabo sopra tutti),
nonché dal gusto di una retorica sostanziale, incisiva, scavata
nella pietra della nostra lingua letteraria (e non, come accade a tanti
poeti contemporanei, nellastratta e incorporea lingua delle traduzioni
poetiche). E valgano per tutti i versi di questa strofe: «Selva
chiusa in pensiero, labirinto / inespugnabile, urlo di gioia / o dangoscia
che giorno dopo giorno / nella grafia tenace delle rughe / testimoni il
tuo sforzo di cercarti». Che questa, poi, sia poesia cristiana,
non lo si deduce solo dalla sostanza spirituale e intellettuale di cui
il libro è, verso dopo verso si può dire, immagine dopo
immagine, impregnato, ma anche dal valore morale con cui sono scelti i
vocaboli (gli aggettivi, in particolar modo), e da quella intima propensione
a leggere simbolicamente, se non allegoricamente, le forme del paesaggio
umano, la geografia dei paesi che abitiamo, facendo di essi un paesaggio
dell«anima» (parola-chiave del libro, attinta, immagino,
dalla grande esperienza poetica dellermetismo fiorentino). Si comprendono,
allora, nelleconomia quotidiana e quasi diaristica del libro (penso
soprattutto alle pagine dedicate alla vita della scuola), certe soste
come il bellissimo sonettino «ai giunchi» (immagine purgatoriale
quantaltre mai), o certi voluti e felicissimi stridori verbali ottenuti
inserendo parole di memoria alta e sublime in una successione di termini
appartenenti alla sfera del parlato o delluso comune (spesso degradati).
Come nel secondo componimento della sezione intitolata Nel gorgo,
dove espressioni dellusurato linguaggio giornalistico («suburbio
industriale... opifici fatiscenti... arterie insanguinate... costruiscono
nuovi appartamenti») sono epifanicamente illuminate dallimmagine
epico-lirica di «ade», dalluso sobriamente lirico dellaggettivo
conclusivo («dolente»), dalla pietas dello sguardo,
dallandamento lento e solenne degli enunciati, e dalla rigorosa
(giusto sottolinearlo) punteggiatura che spartisce i versi. Albisani,
insomma, appartiene alla piccola schiera di quei poeti che credono nella
poesia come esperienza di misura, di verità e di moralità:
Terra e cenere (espressione agostiniana, tratta a sua volta da
un famoso capitolo del Genesi) si presenta dunque come un libro
che non distoglie lo sguardo dalla miseria spirituale della contemporaneità
(attraversata da figure-«spettri», da eliotiane «sagome
grigie e frettolose»), ma che neppure vuole rinunziare a proporre
parole di salvezza morale, se non altro a quanti, fosse pure inconsapevolmente,
«chiedono in silenzio una guida» (p. 112), qualcuno che «tindichi
la rotta» (p. 85), una grazia che salvi il mondo dalla sua aridità,
e ricrei quel senso di creaturalità che accomuna (si legga, soprattutto,
la sezione Anime) gli uomini al mondo animale, la terra al cielo.
«Poesia», XVI, 171, aprile 2003
|