Recensioni
Domenico Adriano, Papaveri
perversi
di Francesco Dalessandro
Ci sono poeti che scrivono
poco e che ritoccano di continuo i pochi versi che producono; che se hanno
dubbi non si vergognano di chiedere consigli ad altri poeti amici; che
i versi finalmente finiti lasciano a riposare, come un buon vino, in qualche
angolo fuori mano della scrivania. Domenico Adriano è questo tipo
di poeta. Lavora lontano dai clamori, senza fretta, con pazienza, attenzione,
competenza e bravura: lo dimostrano i quattro – solo quattro! –
libri che ha pubblicato in un arco di quarant’anni. In tutto, un
centinaio o poco più di poesie che, facendo la media, dà
meno di 3 all’anno (Caproni, per esempio, rivelò un giorno,
a Francesco Tentori e a me, che la sua media era di sette poesie all’anno).
Domenico Adriano fa una poesia nutrita di fatti e di emozioni; egli lavora
con le cose, le piccole e le grandi, con le semplici ma forti emozioni
che fanno la vita di un uomo, i sentimenti che lo abitano e lo fanno vivere,
che siano dolore o affanno, sofferenza o pena, oppure il desiderio e,
bene vivo e intenso, l’amore: per sua figlia, come nel precedente
libro, il toccante Bambina mattina; o per la sua donna, come
in questo Papaveri perversi, piccolo libro luminoso di senso
e di sensi che raccomando di leggere gustandone quartina dopo quartina
come si gusterebbe la pietanza più saporosa, a cominciare dalla
poesia bellissima che fa da proemio.
Leggiamola, quella prima poesia: Forse perché dentro di me
/ avevo deciso un tuo ritratto, / eccoli nei prati del pensiero / mille
e più mille papaveri rossi. // Sotto il cielo di tanta bellezza
/ sono quasi cieco, ma vedo / meglio adesso, si tratta infine solo / di
affinare, come in poesia, l’arte // di togliere, lasciandosi guidare
/ da ogni fiore se dentro ognuno / di loro c’è già
la tua figura, / semplice e perfetta come il fuoco.
Leggiamola bene, perché può rivelarci qualcosa sulla poesia
di Adriano; o, almeno, sul suo metodo. Cos’è, per lui, la
poesia? L’arte del togliere, l’arte di affinare col fuoco,
di temperare il verso affinché corrisponda a quello che, fin da
subito, si sente necessario. La poesia è come il fuoco al quale
somiglia la figura amata, come l’amore e i papaveri che la racchiudono,
«semplice e perfetta» quanto e più di quella reale;
semplice perché essenziale; perfetta perché ideale, aderente
al ritratto già deciso dentro di sé, come lo sono i papaveri
«nei prati del pensiero». Insomma, non è tanto la realtà
in sé a dare corpo alla poesia, quanto il suo ideale riflesso,
che se acceca, fa però vedere meglio, fa vedere più chiaro.
A seguire, è la musica dei versi che conquista, è la freschezza
delle metafore e delle immagini, che brillano e riempiono gli occhi; è
il suono delle frequenti ripetizioni che catturano l’attenzione,
e al lettore sembra di scivolare in una specie d’incanto, nel torpore
visionario e smemorante che proprio il papavero induce: verso dopo verso,
quartina dopo quartina, fino all’ultima, nella quale il poeta sembra
riconoscere l’inutilità della sua impresa: Papaveri,
papaveri miei persi / a voi non servono vestiti o versi, perché
quei fiori – belli come l’amore crudele di cui, forse, sono
l’emblema – non hanno bisogno di parole: Sale sale fino
a farvi belli / il vento che rivolta i vostri ombrelli. Ma il poeta
sì, perché tramite le parole – lo abbiamo visto –
riconosce il senso della propria storia, si riappropria della vita.
Ai versi di Adriano si aggiungono i bellissimi disegni di Giuseppe Salvatori
che arricchiscono il libro di ulteriore finezza ed eleganza.
«Pagine»,
XIX, 57, dicembre 2008 - marzo 2009
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