Recensioni
LA SCENA DELLAMORE
di Antonio Pane
A due libretti di felice (e primaverile) stampa Annelisa
Alleva affida le parti complementari di un suo candido canzoniere damore.
La Lettera in forma di sonetto apparsa per la prima volta
su «Paragone», n. 5 (452), ottobre 1987 ne è il tempo
rovente e impetuoso, la «presa diretta». Le irragioni
le irate, tenere, cieche, incalcolabili ragioni del sentimento
vi cercano le proprie parole. I quindici «sonetti»
inanellati a formarne, a guisa di versi, un virtuale (e caudato) intero
deliberatamente irregolari nel contenuto e nelle misure, istituiscono
una retorica della differenza. Lalterità non è un
punto di vista, non delimita un territorio; è piuttosto, femminilmente,
una pronuncia: prosodia del corpo innamorato, ne riverbera loffesa
gloria. Ed è quindi ossimoro: sposalizio dei contrari. Nel diario
della passione lottano umiltà e arroganza, denigrazione e idolatria,
ferocia e languore. La scrittura è il diagramma del cuore diviso,
ne registra fedelmente lansimo. Ma la sua inermità, la sua
inadeguatezza, («lo so che non si scrive così») è
garanzia di vita, resiste alla lingua che uccide proprio quando dichiara
di amare: «Se tu scrivi non è a me che tindirizzi,
/ ma al pubblico tutto. I tuoi versi / ingioiellano unaltra che,
ispirando, / è spirata. Una mummia. È a lei / che dedichi
i tuoi versi. A lei». Solo il fiore dellunico volto («di
te sono innamorata»), fino alla sua eclissi, può riscattare
lanodino anonimato dello «stile», facendone un respiro,
la semplicità che toglie le vane antinomie del pensiero: «Ti
devo tutto. Sei capace, anche nelle righe, / di trasformare in rimpianto
il mio rancore». In Chi varca questa porta la parola orfana
aleggia sul gran vuoto di un cratere spento. Il rimpianto si curva sulle
ceneri, modella le sue forme daria. E come «la vita era il
non sapere», lamato splenderà nel distacco, loblio
resta la vera luce del ricordo. Ma l«erede di dolore»
sembra qui cancellare il suo volto per farsi cerea sembianza di un coro,
voce di ogni «altra»: «È lei devota, lei che
singinocchia, / lei che sappoggia al gomito divino. / Lei
che piange. Date conforto a lei». È linvisibile comunità
che acompagna l«ultima» sposa: «Ogni gradino del
sagrato era un corpo / nostro di donna. Tutte ti aiutammo, / ma in segreto.
Eravamo / la tua salita liscia, la tua guida». È il nido
di metamorfosi in cui germina la «ragazza che soffre», la
«sosia», la «regina degli scacchi», lamica
che «guarnisce la tomba di una rosa». Lio di fiamma
e di rancura non sa più rispondere ai segni della pena, è
una matita inane: «le si stempera la mina». I suoi graffiti
potranno svanire nel più luminoso dei doni: «Davanti a un
duomo, a unabbazia che in vita / non avevi visto, ti ho pensato,
e li ho fissati coi tuoi occhi, così avidi e capaci di bellezza.
/ Questomaggio ti feci. Tu sollevavi piano lo sguardo, / e, timoroso
che labbaglio potesse darti il capogiro, / con una mano ti paravi
la fronte».
«Caffè Michelangiolo», gennaio-aprile 1998.
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