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Alma Diana

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Recensioni del libro Alma Diana di Jude Stéfan

 

VERSI ALLA DEA DEL VUOTO

di Sauro Albisani

Per noi moderni il tempo campeggia davanti alla coscienza come un contenitore che pretende un contenuto e rischia di rimanere vuoto. Liberato il proprio tempo da ciò che gli dava una almeno apparente, provvisoria parvenza di senso, all’uomo non resta – sembra affermare Jude Stéfan – che riesumare il pensiero della morte. L’unico esercizio che può garantire un senso al tempo – nel tempo della dilazione, del prolungamento artificiale della giovinezza – è appunto il pensiero della morte, ossia il pensiero della cessazione del tempo.
C’è un preciso tono teatrale nel dettato di Stéfan (ribadito dalla frequenza del vocativo, singolare o plurale), a significare che la commedia della vita si rappresenta al cospetto della morte, e infatti quella che nella sua poesia suona come una meditazione sulla morte è piuttosto una rappresentazione della stessa.
Teatro in gramaglie, la poesia di Stéfan mette in scena il ratto dell’anima. Chi è il voleur des âmes? O si tratta di un inganno che urge ormai smascherare?

[...] oh l’Anima
illusione d’essere stati: su queste
pianure sotto questi cieli che ne è
dell’avervi volute per essere di più
nella memoria dei venti?

Minacciata d’insensatezza (tuttavia sublime), la vita non può erigere al senso se non il suo cenotafio, perché esso è contumace, rifiuta di presentarsi in giudizio: «Quest’opera di cancellazione del senso sembra però qui coincidere e complicarsi con un riconoscimento di insensatezza della vita, su cui il linguaggio mente, e che il poeta vuole appunto nel linguaggio smascherare» osserva opportunamente Gianfranco Palmery nel saggio che accompagna questa sua splendida traduzione di Alme Diane.
Il trafugamento del senso derealizza la realtà depauperandola della sua sostanza animica e anche l’amore degenera in un rito che sempre più assomiglia a una danza macabra, angoscioso agitarsi di corpi i quali non possono se non reiterare l’illusione del desiderio (l’agostiniano «avere non avendo»).
La condizione d’allerta della coscienza è dolore lancinante per l’io che s’accorge di non poter ingannare il proprio vigile sé: come non odiare la donna che tu ami, in quanto è donna dello schermo, perché tu sai che il desiderio di lei nasconde un desiderio di significanza: quell’orrore metafisico che vanifica alla radice l’istinto di perpetuare la specie e fa perciò dell’amore non azione creativa ma agitazione onanistica destinata a ricadere, come una giaculatoria, come una preghiera non accolta, su se stessa?

Di te disamorato, posso irriderti
con occhio beffardo nel rivederti
impoverita io che ti baciavo il piede
come poco i mortali sanno fare
per sempre l’amai te lo dico incredula
dea in questo boschetto!

La presenza della donna non riesce mai a celare il loculo d’una spettrale assenza e il poeta si dichiara, appunto, «sconfitto dall’assenza», altrove la dice «mia monumentale assenza».
Se Diana è ciò che dà vita, ciò che conforta e ristora, ciò che dà nutrimento di senso, nondimeno può essere amata solo d’un amore rancoroso e atrabiliare: quella virtù medesima che crea la possibilità di vedere, non deve essere vista. Il cacciatore sa già che se scoprisse la preda, «sul retto sentiero del niente», verrebbe divorato dai suoi cani. Sull’orizzonte della vita vigila un pianeta che nasconde perennemente un emisfero.
Perché la poesia si interroga sulla morte?
Trasformo in una domanda l’affermazione di Bergamín citata da Palmery nel suo saggio. E provo a rispondere così: perché non può interrogare il nume. Al vocativo non segue risposta. Dunque la poesia non può che interrogare se stessa. E non può che interrogarsi sulla morte, perché è in cerca dell’anima; ma per mettere a nudo l’anima, per la sua ultimissima ostensione, è necessaria la morte.
Leggiamo, nell’amaro disinganno petrarchesco di questo canzoniere, dietro l’amore, nello scacco matto ch’esso riceve dalla morte, nel veleno dell’eros, il rancore inesauribile d’un sospetto d’infedeltà: se il silenzio del volto, col suo oracolare stormire di quercia, fosse l’icona del nulla, del «grigio nulla»?
Morbosa curiositas: come non si può guardare la dea che si bagna, così non si può sopravvivere alla propria morte per spiarla. Poesia è il vagheggiamento dell’incontro tra la coscienza e la morte, paradossale simbiosi di veglia e sonno.

[...] Ah essere
morto senza morire [...]

È l’imperativo estetico di vestire questa impossibile promiscuità a generare il barocco stéfaniano. E la poesia si sillaba su un ambiguo displuvio tra l’orrore del vuoto e il suo trionfo.

[...] queste poesie mi siano cenotafio
più cavo più vuoto che incorporeo
mio ex amore di Diana!

 

da «Pagine», XII, 32, maggio-agosto 2001

 

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