IL LABIRINTO
Recensioni del libro

I cavalli del nemico

di Alessandro Ricci

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I cavalli del nemico

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Alessandro Ricci

 

 

Recensioni del libro I cavalli del nemico di Alessandro Ricci

PER I CAVALLI DEL NEMICO

di Francesco Dalessandro

Alessandro Ricci, uno degli sventurati d’ogni tempo che fanno della poesia la ragione della propria vita, nacque a Garessio (CN) il 14 agosto del 1943, da padre romano; laurea in lettere, tesi lodata su Fenoglio; appassionato di meccanica, di motori e d’ingranaggi, per vivere avrebbe potuto fare il progettista d’automobili, ma scelse di fare l’insegnante; partecipò alla realizzazione del film di Vittorio De Seta Diario di un maestro; scrisse soggetti e sceneggiature per cinema e televisione (alcune raccolte in volume nel 1980 col titolo La storia a misura d’uomo); ultimo film scritto (con Claudio Bondì): De Reditu – Il ritorno, dall’omonimo poemetto di Rutilio Namaziano; consumato in pochi mesi da un tumore ai polmoni, quasi inevitabile per un fumatore accanito e fino all’ultimo non pentito, è morto a Roma il 27 marzo del 2004. Prima e soprattutto, però, Alessandro Ricci è stato un grande poeta, anche a dispetto di se stesso: i tre libri pubblicati devono molto alle insistenze di amici. Eppure, nonostante i suoi pudori, egli era consapevole del proprio valore e – contraddittoriamente – soffriva per il suo mancato riconoscimento, poco però facendo per rimediarvi: non cercò mai, per esempio, di pubblicare con i grandi editori, quelli per intenderci che riescono ad imporre un libro anche a dispetto del suo valore. Ci sono poeti – e Ricci era uno di essi – che vivono ai margini del «gran spettacolo», non illuminati dalle luci di scena, per inguaribile modestia e mancanza di vanità accontentandosi – e in ciò forse sbagliando – d’essere letti solo da quei pochi, conoscenti o amici, dei quali stimano il giudizio; pur sapendo con ciò d’essere quasi sempre ignorati da quei compilatori di gazzette e antologie che, come gazze ladre, vengono attratti solo dal luccichio. Onesto e rigoroso fino all’intransigenza, Alessandro aveva un rispetto di sé e della propria integrità così alto e fermo da consentirgli solo brevi lettere a rari amici. Se a quelle lettere allegava qualche poesia, non s’aspettava di più di un veritiero giudizio. Ma, come scrisse Anceschi di Baudelaire, Ricci «fu ciò che fu perché così volle essere, e si aiutò con tutti i travestimenti calcolati, le studiate macchine che gli fu possibile inventare». La scelta della disperazione, il prepararsi da sé consapevolmente le trappole in cui cadere, il mettere in mostra i motivi della propria esperienza di autoflagellazione, furono i segnali trasparenti dell’intenzione di assecondare il proprio destino. La sua impresa fu quella di dare forma all’angoscia e alla disperazione, consapevole che tutto debba esserle sacrificato. E chiunque – anche non conoscesse i due precedenti libri pubblicati in vita: Le segnalazioni mediante i fuochi (Piovan Editore, 1985) e Indagini sul crollo (Edizioni del Leone, 1989) –, chiunque, dicevo, leggerà I cavalli del nemico (Il Labirinto, Roma, 2004), libro postumo (approntato da Ricci prima che la malattia gli togliesse tempo e forze), ne sarà persuaso.

La peculiarità della poesia di Alessandro Ricci, ha scritto Fabio Ciriachi («l’Unità», 14/7/2004), «non è nello sviluppo per crescita ma nell’accumulo, che in termini creativi corrisponde alla difficile arte della variazione». È vero. «Ogni anima bassa / come quella che ho scrive non una, / ma due al massimo / cose buone, poi le ripete / male e in fine / la smette, senza avere / vissuto mai», leggiamo ne I titoli degli altri. Pochi temi, gli stessi della grande poesia di sempre, ripetuti e variati; sì, ma da grande poeta. Il primo è quello della morte. La morte, stella fissa della sua poesia, a cominciare dal suicidio del pompeiano Furio Seniore, in Le segnalazioni mediante i fuochi, per finire con quello di Protadio, in una memorabile scena di De Reditu, passando qui per le morti di Guido, di Lucrezio, di Giuliano l’Apostata, e in tutte figurando l’immaginata sua o quella stata del genitore, ogni volta ricordata e risofferta. In De Reditu c’è un breve colloquio fra Rutilio e il nipote: «È il pensiero della morte che aiuta a vivere», dice Rutilio. «Sembra un pensiero cristiano», gli risponde il nipote. E Rutilio ribatte: «Sembra, ma non lo è». Ciò spiega perché le macchinazioni (penultime le chiama in un bel titolo) del suicidio fossero per Ricci come uno scongiuro e ne alimentassero il male di vivere, perciò la poesia. In Eccoti il regalo per il tuo quarantacinquesimo compleanno scrive: «Sarà basta / per dire basta il tempo che ti avanza, / e poi basta», perché «la vita è un posto dove si può / essere felici. Ma quando l’odio / passa dagli altri a se stessi, allora / è finita». Non c’è niente di cristiano, o di religioso in senso stretto, nella sua poesia; anzi c’è la fierezza di un pensare laico nudo e senza infingimenti, rivendicato fino all’ultimo con severa consapevolezza e in ultimo incarnato nella straordinaria figura di Giuliano l’Apostata che, pur sconfitto dagli ormai «molti, folli galilei», reca un estremo messaggio di virile accettazione della morte, della morte che tutto chiude. (Come non ricordare a questo punto le discussioni con Alessandro sul modo migliore di passare «da vita a morte / senza dolore»? O come dimenticare la pazienza con cui egli, quando è venuto il momento, ha saputo affrontarla quella morte sempre corteggiata? E leggendo i versi con i quali Giuliano morente si rivolge agli amici che gli sono accanto: «Lo so, siete ancora / troppo viventi, non potete / seguirmi, grazie / lo stesso», chi, tra quelli che negli ultimi mesi andavano a trovarlo, non vi sente l’eco delle sue parole quando diceva: «Ora vai, sarai stanco», o quando pregava: «Non venite, perché mi emoziono»?).
In una delle prime poesie del libro, La seconda volta sul tunnel, leggiamo: «Penso alla gioia sgomenta e / forsennata d’esser protagonista / dei gridi, il cuore roco che si / spalanca e riflette nei contatti / di dita, nelle strette e poi le / fughe, per venir presi di nuovo, / toccati per sempre.» E più sotto: «Il vecchio che risoffre / la fine del pomeriggio di gloria, / gonfia primavera di chi vive / altrimenti nel buio stavolta / sono io, la ruota gira.» Siamo subito nel vivo del libro. Difatti, a questi versi seguono due grandi poesie. La prima, 1974, 1984, già inventario e bilancio di ragioni e sentimenti, nella quale, a immagini virili di morte, alle immagini dei «maggiori fratelli» Ricci sa di poter contrapporre solo la propria dignità, che amore e solitudine tendono a vanificare. L’altra, È vero come, che?, in un tempo universale «di praxis» e «di svendita dell’inutile», chiude un tempo personale della vita fatto spesso «di promesse non enunciate, di incontri non / avvenuti»; come altre, precedenti e successive, nasce dalla delusione di un amore andato a male: la consolazione viene solo dal lontano passato, dagli «incanti di Socrate e Platone», «greci di dolci parole» ch’egli sente più vicini di tanti contemporanei, e dai loro «remoti, luminosi pensieri», perché il presente, «l’attimo immobile, atteso / e temerario» della poesia successiva, riserva solo desideri di morte, lascia solo la voglia di «strabere / il mare, perdere i sensi, / affogare».
La passeggiata, poesia che da sola costituisce la seconda parte del libro, è un paradigma. «Sali di qua» leggiamo all’inizio, «senza / sentieri, senza senso, solo / col sentimento». E più sotto: «Se non lo fai oggi, / non lo fai più.» La passeggiata («Con chi la faccio / (…) quale ombra / della memoria m’accompagna?» Ricci si chiede), la passeggiata solitaria da Monte Grosso alla Cresta Bruciata dell’Inferno, e lungo il crinale del Mindino, fino al ritorno a Garessio, «sua patria»; la passeggiata nei luoghi amati è occasione per distillare dai ricordi dell’adolescenza ennesime riflessioni sulla propria vicenda (parola chiave, questa, se ne ripensiamo l’etimologia); motivo per domande banalissime e cruciali: «M’avranno dato il trasferimento? / Vendo casa? Rifaccio / una visita di controllo?»; fonte di vaghissime speranze e sentimenti di precarietà: «Vivere decenni oscurando la luce, facendo / d’ogni estate un autunno e d’ogni autunno / un inverno», scrive in versi che rivelano il senso bruciante d’aver sbagliato tempo, il tempo della fisica e quello della linguistica, insomma della logica (poco prima aveva scritto: «Sono un individuo privo di tempi verbali»). Poi, ecco la nostalgia di Roma, la città del padre e sua, pur se evocata attraverso l’immagine dei poeti-dicitori che si credono belli, «nel massimo della vampa» della sera estiva. Finché, nella maggior fatica, quando comincia la «sfogata discesa» della strada e della vita, non gli resta che provare «a illudere il percorso» con l’amata figura femminile cui confidare il proprio «umanissimo credo a niente», quando la passeggiata sta per finire e si è a pochi chilometri da casa: «dove nessuno m’aspetta», conclude.
«Arrivo dove nessuno mi aspetta»è anche l’inizio della terza parte del libro. «Mi aspettano la città di mio / padre e lunghe passeggiate / con lui che è morto», prosegue. Così, la passeggiata paesana si salda perfettamente alle passeggiate cittadine, dolenti, itineranti elegie della nostalgia, con al fianco l’ombra del padre evocata in situazioni e tempi diversi: nella bellissima, già citata Eccoti il regalo per il tuo quarantacinquesimo compleanno in un agosto vuoto, di «troppi / morti, troppe perdite e lontananze»; altrove, in Poco dopo alcune, sciupate voci, «nel digiuno prandiale d’una domenica / di dicembre», quando «il suono di anziane voci» suscita il ricordo di un altro «lontanissimo / pomeriggio finito male»; in Case, ristoranti, giardini e scale, in una notte d’inizio novembre, dopo un’ennesima, delusa speranza d’amore, col coraggio estremo del «parlare chiaro» tipico di Ricci, «perché / la sconfitta è lunga o non finisce mai», capace di commozione e di un pianto sommesso ma non pudico, di bambino. «Caro papà, però / non ho commesso errori, quasi impeccabile nella piega / amara della bocca», afferma nel finale, «e girando la testa / per non vedere quegli occhi che poi / m’avrebbero perso ho detto proprio le parole / che avresti voluto / sentirmi dire: molte eleganti, alcune leali, tutte / inutili.» Insomma, «com’è naturale che sia», conclude, con «l’impressione onnipotente di avere torto, di avere perso», sopraffatto dalla «furia / pacata della bellezza», come scrive in 4 aprile 1990.
Fra i vagabondaggi con «il fantasma del genitore» nei luoghi dell’infanzia e le discese del tempo, là s’insinua la furia pacata della bellezza, che non è della città (o non solo, naturalmente), ma della donna amata, della donna che incanta e inganna, che lusinga e si nega, punendo ogni forma di desiderio.
Esaltazioni e delusioni amorose sono brucianti: «oggi ho portato il mio amore sul ciglio / di un baratro; più tardi, su una scala / d’oro: assedio al desiderio, aumento / di pugnali e tenerezze sono ogni ascolto, / ogni sguardo passati», scrive. E ne I titoli degli altri spiega: «alle tre / la polacca di nome Ela / invaderà l’osservatorio, i palazzi / di fronte, i rumori / del traffico, i gridi / delle rondini, il cielo e il mare, / con la sua giovinezza». Eccolo, il segreto: la giovinezza. Come sfuggirle? Come non cederle o ammettere «altro tempo, altro spazio, altro / incanto che quelli vissuti insieme»? Ogni conquista perciò è una «vittoria gracile» e ogni rifiuto o abbandono «sconfitta potente»; solo conforto possibile le «condivise bellezze, / le vere e le vane» della poesia omonima, o l’amicizia, se ancora «alcuni ti amano, / non tutti dimenticano». In fondo, i suoi innamoramenti non erano che auspici, esaltazioni dell’attimo presente, personale carpe diem o puntura che «separa la ragione / dal sogno, l’una condannata al tempo / che va, l’altro fermo per sempre / nell’esultanza».
I suoi versi «d’amore e incanto», poco sentimentali ma pieni di sentimento, umanità e consapevole, dignitosa accettazione, scritti in una lingua media e colloquiale, si presentano disarmati, indifesi, platealmente arresi alla derelizione d’ogni straziata bellezza. E le poesie che narrano il percorso rovinoso dai gradini d’oro alle profondità del baratro, le elegie dell’amore deluso sono spesso fuor di metafora e di grande impatto emotivo, ma non perciò prive di sapienza tecnica. La prima di esse, Avvitamenti e terrazze, ne è prova e dimostrazione: qui forma e soggetto sono specchiati, perché i versi mimano la vertigine di un pensiero risentito e intransigente che s’avvita su se stesso e che s’arresta solo un momento nella fissità dello sguardo per «l’ingerenza improvvisa di qualche / sgangherato desiderio carnale / che s’imbuca nelle braci dell’ascolto / come disattenzione» e forse vanifica il «programma suo», della donna, «di congelarmi», dice Ricci, il cui commento, subito dopo, è amaro, ironico e straziato: «perché niente, / niente è più facile e divertente / che finire il cavallo stramazzato…»; il paragone che segue, fra volontà di farsi male e inconsapevolezza della riuscita, è esemplare: colei che colpisce lo fa «con lo stesso / sguardo ammaliato dei ragazzini di tutti / i tempi» che facendosi largo nel cerchio degli adulti osserveranno «lo spettacolo inebriante» del cadavere del nonno, «prima o poi». Di nuovo il divertimento per il cavallo caduto? «E allora è chiaro», è la conclusione: «l’incanto è falso». Anche in Quasi un’interezza la versificazione è di una spirale che scende, scende e taglia il tempo e lo spazio di una mattina d’agosto, «esemplare come nei versi di greci e stilnovisti», Ricci precisa con una similitudine trasparente delle sue; una mattina che scade nel decèdere, nella «foga del macello» e di «una pura stanchezza», in un avvolgente «nulla ricolmo, affollato di lei». «Così mi tocca questa donna per sempre», conclude, «nei luoghi dove la mia vicenda, / così sporca d’errori e disdette, / ora paga e s’arrende». Perché «il lungo processo ai danni di se stesso», come avevamo letto altrove, «ha un esito di condanna». Che parli a fare a Polimnya, nella Centrale Montemartini? regala subito la perfezione di una prima strofe bastante a se stessa: «Come al pesce goloso che addenta / l’esca che l’uccide / ma non lo sa, / ciò che la ragione toglie all’attesa / il cuore lo dà»; se non fosse l’inizio di un altro carme della delusione e del disinganno. La terrazza, infine, è una bellissima elegia in minore che sanziona l’addio alla casa della vita, e forse alla vita stessa come fino ad allora vissuta; lo fa nominando i piccoli oggetti d’affezione quotidiana, testimoni negli anni di così tanto amore e dolore che è strano lasciarseli alle spalle o perderli a un tratto quasi con indifferenza, in un «oggi», leggiamo, «che rifinisce come sempre / nel buio ma non importa, a questo punto, / forse, gran che: sì, proprio, che importanza / può avere.»
Dove la lingua si fa tagliente, perché lucida precisa affilata, è nelle poesie che sono ai vertici del libro. In Ipotesi su Cavalcanti, in cui si può leggere tutta la delusa speranza di Ricci di vivere la propria morte come immagina quella di Guido: «un termine di bellezze», entrando, Guido a Firenze, egli nella sua Garessio «con la testa alta e disfatta / di fantasma, perché un poco / agli astanti – fossero amici / o avversi – almeno / importasse l’aspetto fiero / se non l’anima disperata»; solo un grande poeta sa dire in modo così preciso quel che ancora non ha sperimentato ma che sa vero. In Una storia come le altre, discesa del tempo per descrivere lo sfinimento di Lucrezio che, sorridendo di tutto e «dell’esito inutile dei versi», ma senza ridire «un solo difetto del mondo», s’abbandona serenamente a «l’assenza totale del desiderio e della pena»: la morte.
Al gruppo appartengono anche le grandi poesie allegoriche nelle quali i temi maggiori del libro sono trasfigurati in potenti invenzioni di figure relitte e solenni. Penso alla nave nera di Melanìe, alla carretta dei laghi di Mare d’Aral. Penso in particolare a I cavalli del nemico, la poesia che dà il titolo al libro; a quei cavalli nei quali Ricci rappresenta le donne, tutte le donne e quelle che amò e che non lo seppero amare. Sì, le donne, loro, i cavalli del nemico; e se di qualcuna, più lontana nel tempo, ricorda «la furia e la destrezza nelle prime / fasi della battaglia, la velocità / delle fughe e i reiterati / assalti. E le ferite leggere / che gli avevano inferto: pochi graffi / quasi rimarginati, se non proprio / invisibili», furono però le ultime due (forse le stesse «giovani donne che non / l’avevano amato, volate / di volo azzurro ogni volta che le / guardava» nominate nell’ultima grande poesia del libro, La sera), furono loro «a colpirlo nel petto»; da esse, descritte quasi con tenerezza, in fondo con affetto, era partita «l’asta a due punte / che l’aveva trafitto». Infine penso all’ultima parte del libro, Morti parallele, alle sei poesie che compongono il ciclo di Giuliano l’Apostata, l’ultimo grande personaggio e lontano sosia del poeta scrivente. Morti parallele è la definitiva discesa del tempo, nei giorni antichi o antichissimi della sconfitta di Giuliano l’Apostata ad opera dei persiani. Qui si compendiano tutti i motivi e tutte le suggestioni, si sintetizzano ideali e disillusioni: fedeltà a se stessi e al proprio modo di vivere, condivisione di un destino o della sorte, l’amicizia e il rispetto, la storia grande o minuta che a tutto e a tutti pare sfuggire e farsi senza logica, l’inno e l’elegia, in un alternarsi di gelo e fuoco, le stupite domande di Massimiano, che non sembrano trovare risposte, e, infine, la risposta di Ammiano che, quando finalmente giunge, si rivela disincantata e persino banale, ma che sintetizza tutto, tutto prima della battaglia finale, dove protagonista, comparse e figuranti troveranno la morte. «Perché dovremmo / temere ciò ch’è stato deciso?» chiedeva Massimiano. Ma davvero qualcuno decide per noi? Vetranione non lo crede. Egli va, «chi lo sa perché / (…) / dove Giuliano va, nel mezzo della disfatta». Anche Alessandro Ricci.

«Capoverso», 11, gennaio-giugno 2006

 


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