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L’io non esiste

di Gianfranco Palmery

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L’io non esiste

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Recensioni del libro L’io non esiste di Gianfranco Palmery

SE L’IO NON ESISTE

di Marco Caporali

Ironia è provvidenza, nella coazione ad osservarsi scrivere, come si osserva il comico discendente, senza eredi, di un’illustre e tragica genia. Nell’ultimo libro di Gianfranco Palmery, L’io non esiste, la sola possibile fede è in quella spoglia ininfluente di una grandezza decaduta che ha nome poesia. Fede per via derisoria, nella forma dell’autodenigrazione, laddove coincidono osservatore e osservato, carceriere e recluso. Eppure, nonostante l’involuzione, il mondo in virtù della poesia, sottraendosi all’informe, al caos e all’arbitrio, diviene intelleggibile e dicibile.
Il culto della poesia, in Palmery, concerne la misura delle cose e la propria interna misura. Ed è proprio lo scagliarsi con le armi del pensiero contro l’oggetto del proprio amore, per poi di nuovo dichiararsene devoto, un segno peculiare di questo autore quanto mai discosto dalle correnti del tempo, pur non potendo eluderne l’assedio. Se la città è simulazione di un fare, attiva inattività, la poesia è principio d’ordine, dimora, sorgente di senso. Nella logica stringente dei versi, nel cerimoniale che rinnovandosi garantisce la sopravvivenza, quel che appaga è l’implacabile senso, mai derogabile, con un rigore e una chiarezza che nulla concedono ad avventure di per sé appaganti.
Sonetti domiciliari è il titolo di una sezione del libro (già pubblicata in autonomo volume, con qualche differenza rispetto alla versione attuale) dove domestico è il restringimento delle titaniche aspirazioni, nell’irrisione di sé praticata da colui che subisce lo smacco, il personaggio agli arresti, chiuso nelle sue ossessioni, quotidiane operazioni, manie senza grandezza.

Non è un buon tema il mal di fegato, male
titanico, per dei versi domestici,
domiciliari, anche se agli arresti
non vuol dire incatenato a un crinale
di roccia con la rosura del fatale
avvoltoio che si avventa e dai suoi resti
roseo rinasce il fegato immortale;
qui i tormenti sono oscuri modesti:
[...]
6 – Prometheus Housebound

Nobiltà e degradazione sono due facce della stessa medaglia. Se la cella ha valore planetario (dal cervello all’universo), esiste un prima non consumato in sonnamboliche deambulazioni di stanza in stanza nella casa di pena? Ci fa rispondere affermativamente il demone che un tempo era angelo, e che potrebbe ritornare ad esserlo. C’era un tempo prima dell’ipnosi e dell’incantamento. Tale tempo, in cui era dato incontrarsi, è concluso, in senso sia biografico che cosmico (il tiro è sempre doppio). Un tempo autentico, che non conosceva la coatta inesistenza dell’io, dove il sonno era sonno e la veglia veglia, scandito da inizi e da fini, non dal ciclo perenne della finzione.
La caduta è nell’assenza di un presente, condannato a sparire compiendosi. Registrati sul foglio, i nostri atti, e i pensieri che li riflettono, denunciano la loro inesistenza. La poesia, «forma del niente», è un funereo rito di passaggio, un «rito acheronteo» di cui il lettore è complice, come vien detto nella poesia che conclude i Sonetti domiciliari. Sonetti che alternano il grave e il vivace, così come le poesie della sezione eponima, in un’opera dal respiro sinfonico, in cui si orchestrano movimenti che evidenziano ciascuno una diversa e analoga coazione nell’inesistenza.
Il nome, la casa, la città, l’io, il sonno, sono varianti della medesima cella. La poesia, in principio «paziente» ed infine «perfetta» giardiniera, sistema e dirada ma così facendo, curando e creando il giardino, al suo interno reclude. Giardiniera e carceriera, mentre salva ci danna. È ciò che ci fa fuoriuscire da noi e che a noi riconduce. È l’illusione disattesa di potersi liberare dal falso involucro dell’io e riacquisire verginità mediante un rito di purificazione. O un rito di autocannibalismo, dove il prezioso amuleto, puro e impuro, sacro e profano, tragico e comico, mostra il suo risvolto macabro. Il sublime si spegne nel grottesco e nell’autoannientamento: contro di sé rivolti, ci si riduce a brani.
La vanità del cercarsi, l’impossibilità di appropriarsi di sé, di approdare a qualcosa che non sia provvisorio e intercambiabile, sono condizioni dell’essere pensante e della modernità. Compiendo un ulteriore passo, oltre lo sdoppiamento e la moltiplicazione dell’io, Palmery aggredisce dall’esterno l’io individuale, provando che «dietro la pienezza della sua pronuncia singola non c’è che il vuoto plurale» – come spiega egli stesso nella Premessa. Non siamo che forme cave occupate da un abusivo, da un presunto generatore di identità.

[...]
chi dice io? – Miriadi di io...
Io è mille – mille sono io:
che cosa c’è dietro questo stridio?
Io sono

Se all’io si deve la differenza rispetto al resto del mondo animato, discutibile è la supposta diversità umana:

Chi ti svanisce, che ti arde in fondo? Tutto
ti si confà, e la famosa solfa
«non so chi sono, non sono chi sono»:
la musica del merlo è forse diversa?
e il topo squittisce su un altro spartito?
[...]
Taccuino degli incubi

Punto di partenza e d’arrivo, nel cerchio chiuso del libro e delle cose, è l’inesistenza dell’io. Per cui il libro può essere letto come percorso dimostrativo di quanto viene postulato nel titolo. Ma una volta accertata l’inesistenza di quel che era dato per irremovibile, di quel che era posto a garanzia dell’esistenza, si resta vuoti, deserti, perduti. Venuto meno il despota, lasciati a se stessi, quel che resta è provare a ricordare il suono della sua voce, il suo respiro,

il tempo – il benedetto tempo che dava
ai miei giorni abitandomi, il suo battito
che diventava passo, polso, mio respiro –
per imitarlo, rifarlo, come si cerca
d’evocare una voce amata morta modulando
la propria voce a quel ricordo: delirando.

«Pagine», XV, 41, maggio-agosto 2004


L’IO NON ESISTE

di Idolina Landolfi

Ogni poesia è sempre postuma, come scrive l’autore nella premessa a L’io non esiste: e in ciò sono con lui, soprattutto perché un’opera come questa, di grande efficacia nella compattezza delle sue modalità, nell’andamento egregio della versificazione, ancor più mi conforta nel mio convincimento. La vera poesia è sempre postuma. Nel senso – qui appunto esemplato – d’un distacco che si fa spesso vera e propria «uscita dal mondo», contemplazione a limine del vuoto spazio della memoria e dell’io. «Vorrei solo osservare il transito / quieto delle nuvole come un astronomo / le sue costellazioni» è l’incipit di squisita musicalità di Studio delle nuvole, nella prima sezione del volume. Cui seguono i quarantadue Sonetti domiciliari, insieme che rimanda al concetto degli arresti domiciliari: poesia carceraria, appunto, di un volontario seppellito vivo, ossessionato dal «rendere l’osservatore il suo oggetto». Poesia domestica, anche vero e proprio diario in versi del Prometeo in sedicesimo dagli umori atrabiliari, che vi registra la graduale scomparsa dell’io, fino all’effusione di esso – e della sua diretta emanazione, la scrittura – in nero fumo. Alla tormentosa fobia del «fuori», che nonostante l’assoluto isolamento giunge con l’eco sorda dell’Italia delle «anime morte», corrisponde la minuziosità e il silenzio di gesti sempre uguali, «giorno di recluso che inferma» in un tempo incantato e circolare, e l’esercizio della scrittura sempre più simile ad un «rito acheronteo». Perché sovente (né potrebbe essere altrimenti), l’interlocutore del lungo monologo è la propria poesia, esecrata, definita inutile, oppure invocata quale «paziente giardiniera» del «groviglio dei pensieri». L’autore si appiglia ai momenti di lavoro, alle carte sulla scrivania illuminate dal piccolo astro della lampada; o descrive la sua poesia come già trapassata, che ormai gli compare solo in sogno come altri volti di morti. Per quelle «notti incantate» è il rimpianto, per quei «carmi carcerari» di cui resta solo una fantasmatica traccia sul soffitto della cella.

«La Sicilia – Stilos», VI, 48, 21 dicembre 2004


L’IO NON ESISTE

di Giancarlo Pontiggia

Fra le piccole case editrici di poesia, spesso sostenute dalla sola passione, una passione autentica vissuta nel segno della purezza e della fedeltà, spiccano da anni, per la cura della veste grafica e la qualità delle scelte poetiche, le edizioni «Il Labirinto» di Roma; due sole, esigue, ma folgoranti, le collane: «Stanze» (titolo che richiama un’idea di rigore formale – le stanze di una canzone – ma anche un luogo protetto, che vuole essere il luogo della poesia stessa) e «Tarsie» (destinata a testi più brevi: tessere di intensa forza simbolica accompagnate da disegni originali di artisti). Alle «Stanze» appartiene l’ultimo lavoro di Gianfranco Palmery, L’io non esiste, preceduto da due dense paginette di poetica che illuminano il senso del titolo e del libro: «Che un poeta dica io o tu o dica polimetis Odisseus o our ancient friend Don Juan: tutto è invenzione: l’io non esiste – se non al pari di ogni altro eroe, come veridica menzogna, maschera solenne o ironica, patetica o tragica». La poesia sgretola insomma, secondo Palmery, «il tetragono io individuale», esce dalla contingenza per tracciare forme di più alta, forse impossibile, necessariamente impossibile si dovrebbe aggiungere, bellezza. Ma questo io che informa di sé tutto il libro, questa maschera ironica e tragica insieme, modellata letterariamente sui versi e sulle prose concitate di un Hoffmann, di un Poe o di un Baudelaire, e che a volte sembra richiamare, volutamente richiamare, personaggi romanzeschi quali Des Esseintes, il principe di Salina, Don Juan aux enfers o un Don Chisciotte ormai amaramente rinsavito, questo «sempiterno / eroe furioso e martire – gran ruolo –, / familiare col cielo e con l’inferno» (p. 34), che sembra uscire all’improvviso dalle fosche fiamme di un quadro manierista o prebarocco, chiuso nelle sue stanze romane come un recluso, dedito ai suoi strenui, rovinosi esercizi poetici, «trucchi» (p. 34) da prestigiatore forse, in attesa che si riveli il Grande Nulla, che le «fate tenebrose» (p. 33) recidano una buona volta il filo della vita, questo io pallido e paradossale, perduto fra gli specchi e i nomi di una tradizione giunta ormai al suo luttuoso capolinea (e forse per questo mai come ora percepita così grande), intento ad una lotta vana con il mondo degli uomini (una lotta tanto più vana, dal momento che nessuno, ed è questo, forse, il maggior segno d’eroismo, se n’era mai accorto), questo io ormai già «perduto, morto» (p. 49), assediato dallo spleen e dal sentimento della fine, costretto ad annotare un suo privato Taccuino degli incubi («mio archivio / di tenebre», p. 95), che può sognare soltanto morti (p. 45) – questo io così in apparenza déjà vu ha una sua tale potenza d’impressione, una sua così visionaria radicalità, e soprattutto una così solitaria e acuta consapevolezza, immediatamente tradotta nel corpo liquido dei versi in sentimento e in fulminea percezione visiva, dello stato dei tempi in cui abitiamo da accamparsi memorabilmente nell’immaginario dei suoi lettori. Non è paradossale, del resto, e la storia ce lo ha spesso insegnato, che siano proprio letterati apparentemente chiusi al mondo, reclusi volontari nella cella delle loro private ossessioni e di squisiti segni estetici (la bellezza che talvolta salva, che spesso ci perde: il «ricco nulla» in cui il poeta scompare «lentamente, e in silenzio», di p. 23) a fotografare con più esattezza quella realtà che pure li disgusta e li obbliga a un’esistenza fallimentare e nascosta. Certo questa Roma infernale (p. 69) – dove unici segni che si sottraggano all’esibito niente della vita feriale sono quelli di un «nero angelo» (p. 87), o la stridente musica «degli antifurto degli allarmi delle / ambulanze» (p. 63), – questa Elsinore dedita solo a lussuria e a delitto (p. 62), «mondo di eccedenze: maceri / e macelli» (p. 69), luogo di una protesta metafisica che filosofia e giornali hanno già da troppo tempo liquidato, non sarebbe altro che una vana ostentazione di decadente percezione della fine se non fosse sostenuta, oltre che da una lucida e tormentata sensibilità linguistica (sfolgorante, per la raffinatezza degli impasti, il vocabolario poetico), dalla retorica lussuosa e splendida, dallo straripante movimento del ritmo e delle immagini, dal fasto degli accumuli baroccheggianti (si vedano poesie come I ricordi; Penso ai pettini, alle garze, alle bende; Ed altro ancora resta fuori, resiste), dai frondosi festoni di allitterazioni e di rime (una vera gioia – per la loro tagliente misura – degli orecchi e della mente), dalla sontuosa rifondazione della forma-sonetto cui assistiamo pagina dopo pagina con lo stupore di chi riscopre, finalmente, dopo tanta antipoesia, dopo tanti sciatti versi liberi degli ultimi decenni, una profonda, liberatoria idea di ciò che era, ed è, letteratura (quella letteratura senza la quale la poesia non sarebbe altro che vaniloquio, perso sfoggio di bei versi casualmente dispersi da una sibilla impazzita). Se compito della poesia, come recita una delle poesie più felici del libro, sarà dunque quello di tagliare, sfoltire, mettere ordine «nel groviglio dei pensieri, in questo / gran disordine dove ogni pensiero / si ripete si perde come in un assedio / di erbe che si fanno presto sterpi / tra loro soffocandosi [...]» (p. 82), al poeta non sarà dato altro che restare fedeli, fino in fondo, al proprio «cruciato perditempo» (p. 13), consumando il «tempo senza tragedia / in calmi studi, mentre il mondo rovina» (p. 63).

da «Testo», XXVI, 49, gennaio-giugno 2005

 

 

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