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In quattro

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Recensioni del libro In quattro di Gianfranco Palmery

 

LA QUARTINA E LA MISURA DEL PENSIERO

di Marco Caporali

Pubblicata nelle Edizioni della Cometa, e presentata da Valerio Magrelli e Sergio Quinzio presso la stamperia il Cedro, la raccolta di poesie In quattro di Gianfranco Palmery, con quattro acqueforti di Edo Janich, (esposte con altri lavori del pittore friulano nei locali di Trastevere), è composta da quarantotto quartine e doppie quartine.
Di Gianfranco Palmery, già direttore della rivista «Arsenale», era uscita anni fa sempre per i tipi della Cometa, una silloge dal titolo L’opera della vita. E come allora l’opera si incentra sul dissidio tra mente e materia, tra dissipazione e costrizione del pensiero. La misura canonica della quartina offre l’involucro, letterario e vitale, (mai i termini appaiono disgiunti), alla sostanza informe, aerea, terrena della meditazione. Quartina che formalizza la chiusura del mondo in un nucleo di pensiero, e quindi la posizione dell’individuo nel mondo. I quattro punti cardinali, da cui discende la provvisoria collocazione dell’uomo nello spazio, ne disegnano la regola immutata, l’immobilità nel movimento.
Non è più, come in L’opera della vita, una semplice allusione alla forma tradizionale del sonetto, ma un tentativo di riedizione, plausibile, di un calco metrico della clausura (una custodia, un guscio), ogni volta diverso e obbediente al sistema normativo che fa identici i contrari. Identità bene individuata da Sergio Quinzio, che sottolineava la coincidenza nella poesia di Palmery tra perdizione e salvezza. Il pensiero aspira a superare la misura che ne permette lo svolgimento. è come una rivolta del sé contro l’origine, o contro il crocevia (la posizione nello spazio, di cui la metrica è indizio) che lo legittima. Così suona un componimento chiave della raccolta: «Ancora mi riporto a quella soglia / a quei passi dove si pagano tributi / al mondo, dove il clamore impera e spoglia / del silenzio, fino a rendere muti».
I passi in sé contengono la soglia, la condizione dell’orientamento, e il cammino prepara la cancellazione, il definitivo svuotamento del linguaggio. Così ancora Palmery rileva lo statuto transitorio dell’«osso», di solito simbolo di verità ultima, di residuale essenza. Tutto, forse lo stesso disegno escatologico, è testimonianza della vanità. La stessa fede può essere intesa come suprema finzione. Nell’analogia formale tra il mondo e l’io, che la quartina realizza, l’incompletezza è lo scacco subito e insieme il soffio che mantiene in vita (o testimonia la vita). «Assiepata di cristalli» (lo stile, la maschera, le innumerevoli mitologie), la mente segue il destino che muta il desiderio di purificazione, la fuga verso il basso o verso l’alto, in pietrificazione del mondo animato.
Nella raccolta In quattro, Palmery si spinge nel più impervio terreno di confine tra astrazione e dicibilità. E il susseguirsi delle quartine trova, come il poema della mente di Wallace Stevens, nei segnali del recluso «la disdetta e la grazia universali».

«L’Unità», 6 luglio 1991


IL MISTERO MINERALE

di Sergio Quinzio

Nel corrompersi e nel perdere significato delle parole – di cui l’uomo e anzitutto il poeta contemporaneo, basti il nome di Celan, fa l’esperienza – non posso neppure dire «pietà» per esprimere il sentimento che suscitano in me le quartine di Gianfranco Palmery. Forse posso tentare di dire pietas: affetto, tenerezza, com-passione. Provo pena di fronte alla sua infelicità, fin dalla prima quartina: «... qui si misura nello spazio / e nel tempo il sacrificio e la perdita». E così via quando si mostra come un «risibile rapace ormai allo smacco / rassegnato» (II), o «un flauto d’osso» (XII), «una reliquia, un relitto del tempo / trascurato dalla vita e dalla morte» (XIII). Quando si vede con «vergogna» come «scheletro ricurvo e / sbilenco che sbuca dalla pelle» (XIV).

«Come tra quattro mura o quattro assi
in una stanza o nella bara: la quartina
è la cella, il sepolcro, la guardina
– è la misura della chiusura.»
(XXIX)

Chiusura a che cosa se «fuori è niente» (II), se il poeta non è che un «vano riflesso della sua evanescenza» (XLVII)? Tutto accade nel «crocevia dell’io» (II), luogo dove tutto si incrocia, tutto viene crocifisso «in questa conca oscura e duro guscio / di pietra» (XXVII), il luogo del cranio, del teschio, che è il significato del nome «Calvario», dove è stato crocifisso Cristo. La pietas si prova di fronte a un vivente, di fronte a un volto, ma è sempre pietà per la solitudine e la sofferenza di tutte le cose, per «le lacrime delle cose», che lì si rendono visibili. Come dice Benjamin, la parola dell’uomo esprime il dolore muto della natura, che soffre perché è muta, ma più ancora è muta perché soffre. La parola umana, stanca e consumata, mi sembra che tenti ancora, nella testimonianza di Gianfranco Palmery, di esercitare questa funzione che, sempre secondo la tradizione ebraica interpretata da Benjamin, è un «nominare» che riflette e compie il «verbo» creatore di Dio che fa essere le cose (Sulla lingua in generale e sulla lingua dell’uomo). Forse, così consumata com’è, la parola non può più dir altro che l’orrore del nonsenso delle cose, ma questo è tuttavia un ultimo appello, un ultimo riferimento alla possibilità del senso.
Benjamin dice anche che l’autentica parola umana non è solo compito del poeta, ma di ogni uomo. Che cosa succede quando la parola dell’uomo diventa «parola poetica» – qualunque significato si voglia dare a questa distinzione, che comunque distinzione è? Mi sembra che la parola poetica (come, credo, ogni forma d’arte) sia segnata da una specie di eccesso, che l’ha resa riconoscibile come tale. Un eccesso, anzitutto, di intenzionalità. La parola poetica è intenzionata alla bellezza. E certo io non saprei dire cos’è la bellezza, e non saprei dire nemmeno se è un unicum che si possa definire. Ma anche nelle poesie di Palmery la percepisco qualche volta come antitesi della pietà.
La labilità in questo rapporto è svelata dal mistero della poesia come assurda presenza in noi di ciò che è «lontano / da chi resta e si estenua nella carne»: le «luminose e notturne, emule lune / o stelle che pallide si levano...» (XXIV).
Che quelle che ho chiamato «bellezza» e «pietà» stiano in tensione tra loro, e addirittura in antitesi, lo sa anche il poeta, che poeticamente dice l’illusione – e forse la colpa – della poesia: «... questo sapersi
imperfetti, confusi e destinati
a sparire...

Oh arte,virtù: un pugno
di materia ridicola che rotola
verso la sua scomparsa, ma di sé
vuole lasciare mirabile traccia».
(XX)

Le poesie che ha scritto appaiono al poeta «fatue mitologie», «ormai lontane o veleni / del tempo: repellenti reliquie che dicono / la disdetta e la grazia universale» (XXI). La «disdetta» e la «grazia», insieme. La pietà non può essere ambigua senza cessare di essere pietà, la poesia invece è ambigua, la bellezza è ambigua, come ha scritto Dostoevskij. La bellezza infatti può esprimere la pena, comunicarcela, rendercene partecipi, ma proprio nel fare questo la offusca, e vorrei dire la tradisce. L’orizzonte di Gianfranco Palmery, con i suoi quattro punti cardinali, sembra già all’origine, all’Oriente, all’inizio delle sua quartine, consapevole del destino di fallimento della poesia:

«ciò che è imperfetto è nella perfezione
del disegno, che prevede la disdetta,
il dissidio, è quella lenta delusione
del mondo in cui è nascosta la salvezza.».
(IX)

Ma a che specie di salvezza ci conduce l’imperfezione che si svela nella ricerca della perfezione? In Palmery, attraverso l’insistenza sull’immagine delle ossa, della pietrificazione, sembra una salvezza «minerale». nel cranio «è racchiuso / un fulgente mistero minerale» (XXVII); in una delle ultime quartine l’«anima» è una «miniera abbandonata», la ferita del poeta non sanguina più, «si è richiusa – una dura, cordonata / cicatrice da sigillo: né sangue né linfa – da quella bocca serrata più stilla». (XLVI). Ma nella penultima quartina l’ispessimento, la pietrificazione coincidono con il «vano riflesso» della evanescente realtà (XLVII). E del resto neanche la salvezza è, in definitiva, distinguibile dalla dannazione: «... sono io il mio inizio / e la mia fine – e giro in tondo sempre stretto / a me stesso, vittima e ruota del supplizio» (XXXVIII). Palmery tenta anche di uscire dal cerchio, si rivolge a un «Tu» divino, al quale chiede perdono dello «sperpero dei doni, il dissennato / sciupìo degli anni, i danni, le dissipazioni» (XXXVII). Ma non esce dal cerchio, che è il cerchio magico della poesia, della bellezza, dell’ambiguità della bellezza.

«Leggere» n. 38, febbraio 1992


SU IN QUATTRO

di Stefania Portaccio

«Fuori è niente: solo parole morte.
È nel crogiuolo, nel crocevia dell’io
che s’incontrano il mondo e la morte,
lussuria e assoluto, Diavolo e Dio.»
(II)

Dice Jung che è nei crocicchi più bui che l’anima si incontra, che si «fa anima». Anche per Palmery solo nel crocevia dell’interiorità la morte e la vita si misurano, ma non si tratta qui, come per Jung, di un momento di crescita; è invece condanna, clausura entro i gusci, ugualmente angusti, del cranio e dell’anima:

«Mentre sostengo con la mano il guscio
angusto dell’anima, la sua curva custodia
d’osso, quel che il pensiero fatuamente
spende o cauto pesa, assorto soppeso.»
(V)

La zavorra dei pensieri e quella dei sentimenti tipici dell’io, come la vanità, impediscono il volo. La tensione verso un impossibile librarsi, il desiderio tutto condizionale di abbandono all’Ente percorrono le cinquanta, circa, quartine di In quattro, costantemente intrecciandosi alla consapevolezza che il luogo non è altro che il «qui», cioè il mondo materiale, segnato dall’esiguità dello spazio e dalla corsa lineare del tempo, e altro non vi sia che un’interiorità parimenti limitata e mancante di referenti assoluti e salvifici.
Del proprio stare nel mondo, che è disincanto delle giornate estranee («Ogni mattina ha già sul fuoco una sera», (XXXIV), oppure «anche le mie giornate ormai accadono / senza di me», (XXXVI), di tutto questo sciupìo e della propria accidia piacerebbe a Palmery dare conto ad un Dio che accolga l’inoperoso nella sua grande opera e in essa lo sciolga.
Questo è già più del conato di chi comunque sa che tutto è solo qui ed ora, somiglia al desiderio mistico, appartiene perlomeno alla famiglia della grande richiesta di San Giovanni della Croce che la propria debole anima solo bruciare alla grande fiamma vorrebbe e solo quello attende. Nello stesso tempo però Palmery afferma «sono io il mio inizio / e la mia fine» (XXXVIII) e dice che ha solo un vaso di cristallo, che è la poesia, da serrare al suo petto nel cammino (XL). Qui sta la sola, parziale e personale, salvezza, nell’ambiguità della bellezza, nel piacere fatuo della parola. In un commento al libro di Palmery («Leggere», n. 38, 1992) Sergio Quinzio conclude dicendo che il poeta tenta di rivolgersi ad un «tu» divino ma non esce dal cerchio magico della poesia. Il «ma» di Quinzio situa però il suo intervento fuori dal tema della ricerca poetica che è il luogo unico di Palmery. Un luogo dove non si dà attingimento di senso ultimo o di verità ma narrazione di questa ricerca, e inseguimento della parola.
Infatti, pur sprigionando ogni quartina un sofferente bisogno di assoluto, Palmery si anima e ci anima non di quello, ma del suo modo di dirlo: la forma da lui scelta è quella di una lingua composita e preziosa, dalla rima interna, esterna, solo ottica a volte (X), dalle metafore bizzarre ma calzanti. Le sue sono le immagini di un poeta barocco che vuole toccare mente e sensi al tempo stesso, senza mai sconfinare nel puro gioco rococò, ma anche senza alcuna illusione di trafiggere con la parola l’essenza della vita, e tanto meno l’orecchio divino. La poesia è anzi un celarsi «dietro una maschera (il metallo tempestato / dello stile, le smagliate mitologie)», ma dietro la maschera «c’è il dietro / della maschera [...] la forma del vuoto» (XVIII). Allora, meglio la poesia, ed in genere l’artificio dell’arte che rende vivibile e dicibile non l’essenza ma almeno l’apparenza della vita.

«Galleria», XXXXII, 3, settembre-dicembre 1992


PER IN QUATTRO

di Luigi Fontanella


Scritte tra il 1986 e il 1988, uscite – come informa il risvolto di copertina – per la prima volta nel 1991, in edizione d’arte, le quartine che compongono questo elegante libretto (impreziosito da quattro incisioni di Edo Janich), confermano la raffinata ricerca di un poeta, saggista e traduttore romano appartato, nonché alieno da qualsiasi conventicola di parte, che ha da sempre la mia stima. E ci confermano, queste quartine, anche la sofisticata attrezzeria linguistica di Palmery, la sua dolorosa, introspettiva riflessione, il suo funambolismo verbale che, sia pure di sfuggita, in certi passaggi mi ha fatto pensare a un grande poeta negletto come Ripellino. L’unico rischio, se di rischio si può parlare, è un certo “eccesso” di bravura che talora può sfociare in puro virtuosismo barocchistico. Meglio allora quando Palmery lascia che la sua libera Stimmung si sciolga in suadente, quasi metafisica visionarietà, come in questa bellissima quartina: “Anche le mie giornate ormai accadono / senza di me, come in quelle case / incantate le tavole che s’imbandiscono / da sole e tornano da sole sparecchiate.”

«Gradiva» n. 33, Spring 2008

 

Edizioni Il Labirinto