IL LABIRINTO
Recensioni del libro

Giardino di delizie e altre vanità

di Gianfranco Palmery

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Gianfranco Palmery

 

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Recensioni del libro Giardino di delizie e altre vanità di Gianfranco Palmery

 

LE VANITÀ DI PALMERY

di Edoardo Albinati

Pensiero minore su Charles Baudelaire e I fiori del male. Abbiamo il paradosso del poeta probabilmente più difficile degli ultimi secoli – assai più arduo, nella sua sintassi grandiosamente sistematica, da pensatore classico, dei frammentati poeti novecenteschi, spesso assai meno oscuri ed eraclitei di quanto si vorrebbe credere – il quale viene letto soprattutto durante l'adolescenza e poi prevalentemente rammemorato, ricapitolato, presupposto. Come certi monumenti arcifamosi, lo si considera acquisito in visione una volta per tutte. Etant donné que... Forse sarà proprio per il suo ruolo colossale, di propedeuta a una modernità i cui requisiti sembrano in verità evidenti solo a chi abbia già deciso di metterseli alle spalle.
Oggi l’unico poeta che in Italia pratichi Baudelaire è Gianfranco Palmery. Lo fa in tutte le forme in cui questa frequentazione bruciante resta possibile a un contemporaneo senza trasformarsi in uno scacco nobile o in una parodia. Ciò implica la creazione di un continuum prosastico-poetico molto laborioso e pieno di rischi perché esige la contaminazione di tutti i livelli, senza lasciare alcuno spazio franco per la cosiddetta poeticità, e sfiora di continuo l’abisso del ridicolo, del ridicolmente abissale, che è poi la materia propria del canzoniere baudelairiano e l’oggetto misterioso della sua quest. Ragionare in poesia e ragionare della poesia come se fossero le fasi di un medesimo respiro richiede infatti una saldezza dell’istituto letterario di tipo classico, e ciò nell’istante stesso in cui il poeta è minuziosamente impegnato a dimostrarne l’infondatezza e gli inganni, quindi obbliga alla fabbricazione (o piuttosto allo smantellamento) della propria intera vita in vista di tale opera: occhi, ossa, pelle, casa, lavoro, materassi inclusi.
Il compito è grandioso, e appunto per questo, grandiosamente derisorio per la personalità che occorre a soddisfarlo la quale non ha senso definire altrimenti che eroica. Solo l’eroe infatti riesce a parlare ancora dopo essere stato trafitto e ucciso, riesce a parlare anche da morto, come fa l’iscrizione tombale al viandante che vi sosta accanto (suonando infatti spaventosa e comica al tempo stesso, effetto echeggiante di un «morto che parla», insomma di uno spettro esautorato eppure autorevole...); e perciò la fonte «postuma» da cui si origina la sua voce, Palmery l’ha da sempre situata in un aldilà della vita, in un campo di ceneri calde sul punto di raggelarsi, di rovine esistenziali su cui già cresce l’erba, traslando il proprio corpo ossuto di libro in libro in una specie di ininterrotta inumazione di se stesso, di cui la poesia è appunto il canto didascalico di accompagnamento funebre, ora struggente di pianto parentale ora stridulo come la cornetta in un funerale jazz.
Se dunque accettiamo la forma (vuota) di questa dedizione integrale alla poesia, nella sua mortale mania o maniera di smisuratezza (baudelairiana, appunto), non troveremo affatto strano il modo frontale con cui Palmery inquadra i temi o le «stazioni» attraverso cui il discorso deve necessariamente passare. Inutile nascondersi dietro il fumo degli interdetti: ciò che non è inesprimibile, suggerisce il poeta, va espresso (inclusa la figura medesima dell’inesprimibilità); o meglio va trattato, cioè diventa oggetto assieme di trattazione e trattamento e paziente trattativa. Dunque: studio, invenzione di equilibri verbali e fonetici, uso parco o inebriato delle fonti, assemblaggio dei materiali, rifinitura di concetti e figure, esaustione delle varianti: come un pittore al lavoro nel suo studio, circondato di utensileria, anche il poeta deve dare fondo all’intero bagaglio di risorse retoriche, e la pagina (di prosa o di poesia) ne risulterà alla fine campita di parole che conservano almeno un po’ la traccia della lavorazione: perché era proprio questo il fine del lavorare, dare illuminazione al processo, rischiarare il percorso illustrandone fratture e curve.
Ciò è particolarmente evidente e quasi esibito nella sua più recente raccolta pubblicata, Giardino di delizie e altre vanità, la quale si articola come un vero e proprio catalogo di temi offerti alla riflessione del lettore prima ancora che questi si accinga a leggere le liriche che compongono ogni sezione: Vanità, appunto, e poi Preghiere, Virtù, Ospizi, Stazioni, Inferni...: Palmery immagina la lirica come un «predicato» su ciascuno di questi inesauribili soggetti di meditazione, (e infatti non è raro che le sue poesie siano composte di un’unica frase, di una sola, per quanto ramificata, sequenza sintattica: col risultato di suonare singolarmente affermative, in qualche modo «positive» malgrado la tonalità magari sarcastica o funesta), e dunque procede alla trattazione del tema allineando i risultati del suo «ricercare» in modo che si crei tra loro un effetto di riverbero, di moltiplicazione, un’onda patetica che quando cessa di risuonare e si ritira lascia scoperto un piano del pensiero, per così dire, solidificato e reso compatto dal trattamento versuale, insomma una filosofia a cui il lettore è infine libero di arrendersi come di resistere. È un procedimento al tempo stesso di onestà intellettuale e di antica scaltrezza retorica: indica coraggiosamente la possibilità che la poesia riprenda tutto il suo fiato argomentativo, offrendo i saggi di una ricerca individuale già avanzata («questo io so, o non so, di questo ho fatto esperimento...»), e intanto s’incamera l’effetto di attrazione che i temi in sé, proprio in quanto argomenti ben definiti e non sparse ispirazioni, sprigionavano. Alla maniera di un romanziere o di un saggista o meglio ancora di un poeta antico, consapevole cioè della potenza intoccabile che emana dalla materia scelta.
Tale tensione esaustiva che già si affermava nei libri precedenti, tra i quali citiamo a esempio L’opera della vita (1986), i Sonetti domiciliari (1994) e il monografico Gatti e prodigi (1997), trova la sua forma tipica nell’iterazione: iterazione di concetti e di immagini e di suoni, che si rincorrono tra verso e verso, poesia e poesia, libro dopo libro, nonché trasversalmente lungo tutti gli interventi prosastici, contribuendo appunto a irretire il lettore nel discorso e piegarlo all’ascolto attraverso una serie di finissimi aggiustamenti. Frequenti in Palmery, al punto da potere essere considerate la sua «sigla», le sequenze allitterative e appositive tenute fino alla soglia della maniera e anche oltre (inutile portarne esempi qui, il lettore ne trova a ogni pagina e spesso anche nei suoi testi in prosa): più che segnali di un gusto barocco di lusso o di frenesia linguistica bisognerebbe appunto considerare gli aspetti costruttivi e suasivi di una tale tecnica, anch’essa intendiamoci «secentesca» ma sul versante opposto a quello dell’edonismo verbale (Palmery «predicatore» insomma piuttosto che «giocoliere», fermo restando che anche uno spirito penitenziale ha bisogno di fiammeggiare sul suo pubblico...). E altrettante osservazioni, che chiamano in gioco una cultura che si stende appunto tra l’oratoria grand siècle con accluse Vanitées franco-fiamminghe e le sezioni purgatoriali dei Fiori del male, si potrebbero fare sulla sontuosa composizione sintattica del verso di Palmery (si arriva facilmente a contare una dozzina tra coordinate e subordinate connesse in un unico periodo!), che si potrebbe dire baudelairiana se non fosse torturata dall’uso dell’enjambement, volto a romperne la solennità in modo talvolta quasi irato, talvolta ironico, comunque sempre alludendo a una pienezza d’arte e metafisica da cui non si può che, spettacolarmente, con parabola di fuoco e fumo, cadere, precipitare... essere scacciati, esiliati...
E dunque, anche formalmente e non solo per l’ovvio riferimento tematico, prima di Baudelaire, John Milton.
Come Milton, Palmery è un poeta di scintille e fumo. Difficile scaldarsi alla sua poesia, nervina e capricciosa proprio quando parrebbe consigliare al suo lettore i montaigneschi sollievi della pazienza, i sorrisi di una luciferina rassegnazione; inutile cioè trattenersi accanto ad essa sperando di assorbirne il calore, poiché per sua natura la poesia di Palmery lampeggia, sfrigola, fumiga, scoppietta, come il tizzo in Inferno, XIII, o appunto come accade nelle pirotecnie più mentali che ottiche del poema miltoniano. Malgrado la sua dedizione alla pittura e il procedere in parallelo coi suoi modi cognitivi e costruttivi, non vi è, crediamo, un poeta meno visivo di Palmery, e questo ancora di più lo rende inattuale rispetto alla dominante cultura dell’immagine. Il nervo ottico di Palmery manda impulsi dal cervello verso la pupilla, e crea la visione a partire da una ghirlanda di parole, o meglio di frasi strettamente intrecciate: ciò appare evidentemente in una poesia che valga come citazione esemplare del suo libro oltre a essere una delle sue più belle, Natura morta con ramo di quercia. Malgrado il titolo pittorico, qui tutto è verbale e mentale, dalla parola poetica il trapasso verso la moralità avviene in modo volante, lasciandosi dietro un profilo appena disegnato dell’oggetto che doveva fungere da connettivo materiale.
Il disegno, dunque, l’idea: dietro la maschera «secentesca» e concettosa di Palmery si nasconde un solidissimo architetto di forme e temi, un cacciatore sistematico di segni, un esprit à projets che caparbiamente rifiuta il puntillismo di molta lirica odierna nel nome di un’eloquenza che non cessa di interrogarsi sulle proprie posture nel momento in cui avverte comunque la necessità morale (o se non morale, almeno teatrale) di assumerne, a costo di apparire un dandy o un predicatore o un asceta. La singolarissima tensione di questo poeta rivela un possibile modo, in realtà molto contemporaneo, di declinare la propria presenza/assenza nel mondo: quello di passeggiarvi assorti nei sogni di una decifrazione integrale dell’esistenza, l’esercizio mistico e metropolitano di Baudelaire.

«Pagine», XI, 30, settembre-dicembre 2000


GIARDINO DI DELIZIE E ALTRE VANITÀ

di Luigi Fontanella

Il libro deve la sua nascita a una occasione, accidentale ma decisiva: il catalogo di una mostra intitolata Les Vanitées dans la peinture au XXVII siècle (Caen, luglio-ottobre 1990). E ancora, lo stesso Palmery: «... l’idea e il desiderio di fare un libro interamente ispirato alla vanitas si sono accesi a quei colori, hanno preso forma da quelle immagini. Che sono i colori e le immagini di Valdés Leal, Kalf, de Heem... E il progetto stesso di un libro come catalogo – catalogo certo parziale, di parte, delle cose del mondo – anche questo è nato di lì». Poesia pertanto speculare, delle «macerie», questa di Palmery, ma sono proprio esse a costituire – come viste dall’alto, in un unico, conglomerante abbraccio visivo – il Giardino di Delizie in cui (di cui) il poeta è chiamato a dare testimonianza con la sua parola essenziale e sontuosa, e con la sua vita esperita e sentita non altrimenti che come «lenta morte». Dunque poesia estrema (e in estremo), a petto della quale il rischio è l’afasia, o, per contro, appunto, il più sfrenato barocchismo d’accumulo, nel quale l’Opera può risultare un Gioiello Stellare e al contempo Vanità Totale. Palmery ha il dono e la scienza di possedere la sottile capacità di trarre sensi da suoni (e viceversa), con suggestioni e richiami di idee che si vestono di consonanze interiori e assonanze esteriori, in un fluire labirintesco che è liberazione e (auto)vessazione, incantamento e incatenamento: una macelleria virtuale di cui il poeta è reo e innocente, vittima e boia. Il risultato complessivo è una poesia contagiosa, di forte tenuta ritmica, tensiva, avvolgente, spiralesca (senz’altro tra le più notevoli che mi sia capitato di (e)leggere in quest’ultimo scorcio di millennio): si veda p.e. il crescendo dell’ultima strofa del poemetto La stanza e Testa di morto su un libro d’ore, per me uno dei vertici in assoluto di questo libro.

«Gradiva», 19, Spring 2001


GIARDINO DI DELIZIE E ALTRE VANITÀ

di Fabrizio Patriarca

Una certa pratica di giardini non è estranea al buon frequentatore della poesia novecentesca: Franco Scataglini, Bruna Dell’Agnese, Elio Fiore, Silvio Ramat. Tra giardini e orti, indietro fino a Montale, chi percorre questi spazi chiusi non ignora quanto sappiano proteggere, mascherare o stringere d’assedio, soffocare.
L’orto montaliano presta scampo alla fuga del porcospino, emblema ritornante che altrove, in un luogo celebre, si abbevera «ad un filo di pietà». Ma quell’orto era stato, al principio della stagione degli Ossi, un «reliquiario», l’illusione di una vita appena rinfrescata dal vento, e insistentemente minacciata, presa tra le mura erte e inesorabili del «rovello». Pure, lo stesso orto, lembo di terra o metafora che fosse, era detto da Montale «crogiolo».
Il giardino, o l’orto, secondo le diverse tendenze (che forse sono altrettanti ritagli della più lontana raffigurazione dantesca, dal bosco dei suicidi alle dolcezze dell’Eden) suscitano il richiamo della sicurezza come l’orrore della claustrofobia. Fuori dalla letteratura si potrebbe individuare l’erede contemporaneo dell’ambiguo giardino che popola l’immaginario dei poeti (spesso lo hanno chiamato hortus conclusus) in quello che scorre davanti agli occhi, tipico e seriale, vagabondando per la provincia americana: cinto dagli steccati di un bianco innocente, armato di paletti acuminati che si ripetono minacciosamente. Questo giardino di delizie di Palmery è infine un giardino in cui è quasi impossibile entrare. Più che conchiuso, esso è precluso. Ed anche penetrandovi, non è possibile respirare. In breve: è il giardino perfetto. 
Qualcuno però, ne ha da tempo chiarito il segreto: questo giardino è un teatro, e il suo inventore va posto a buon diritto, assieme a Sade, Fourier e Loyola, tra i «logoteti». Così Roland Barthes definiva i fondatori di lingue.
La tesi di Barthes era semplice e niente affatto provocatoria: Sade, Fourier e Loyola, ognuno con la fede prediletta (unico elemento che muta passando dalla scrittura dell’uno a quella degli altri due), mostrarono «stessa voluttà di classificazione, stessa furia di ritagliare (il corpo cristico, il corpo vittimale, l’animo umano), stessa ossessione numerativa». Come a dire tre «scenografi», il cui carattere non si rileva dalla pressione sugli oggetti o dallo spessore dello stile, ma precisamente dall’insistenza della scrittura.
Così, anche la scrittura di Palmery, in questo suo libro decisivo, ossessivo, meticolosamente articolato, è instancabile, insistente: la morte enumerata, catalogata, ricombinata è qui praticamente «prescritta» attraverso l’esposizione, il teatro delle vanità. Palmery è un logoteta perché la lingua di questo libro è inflessibile: circolano e si combinano le definizioni e le figurazioni mortifere con rigore inaudito, il teatro trionfa su tutto, e col teatro i modi canonici della pratica dell’immagine, anch’essi già riassunti da Barthes: l’imitazione, il quadro, la seduta. 
Ne aggiungo due, altrettanto ineludibili e doppi: la parodia e la «quadreria», ovvero il quadro che ne contiene molti. Parodia di marca mitologica e infernale: il nome della furia Aletto depotenziato e ridisciolto nella figura del «seppellito sotto le coperte, a letto». Quadreria esorbitante, sinceramente «irrespirabile», ne La stanza, grande natura morta sulla vanità dove ogni oggetto è disincarnato e reso quadro o cosa appena senziente, al modo dello stesso osservatore, il cui profilo è sorpreso in chiusura raccolto nella cosa infernale per eccellenza:

Al muro, in una nicchia, sopra il tavolo
più scuro, riparato tra i libri un argenteo
crocifisso di legno – ai suoi piedi un calice
opaco, profano – fotografie – Il Diavolo
di Plancy – e l’immancabile teschio:
il mio – che ispeziono con un dito allo specchio.

Palmery, partendo da un catalogo pittorico sulla vanità, voleva realizzarne uno in versi, per sua ammissione «almeno parziale». Ha fatto invece un giardino, che è pure un teatro, che è pure un libro che a intervalli variabili suscita quel desiderio di discostamento, quel timore d’asfissia che nella prosa ha un sicuro doppio nei racconti notturni di Giorgio Manganelli. 
Su questo libro, che insiste e disturba, si ritorna continuamente.

«Pseudolo», IV, 10, giugno 2002

 

Edizioni Il Labirinto