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Casa Bagger

di Marco Caporali

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Marco Caporali

 

 

Recensioni del libro Casa Bagger di Marco Caporali

 

CASA BAGGER

di Paola Malavasi

«A smuovere i confini pensa il vento»: da questo verso prende l’avvio la breve raccolta di Marco Caporali, introducendoci nel paesaggio da cui è scaturita: l’isola danese di Samsø, dove si trova la casa del pittore Svend Bagger (1900-1978) e il poeta ha vissuto per un periodo. Le isole del nord permettono un più immediato confronto con la possanza della natura, la sua misteriosa forza. L’isola di Samsø, in particolare, induce Caporali a considerazioni sulla caducità, sui simboli di cui è portatore il mondo naturale, dotato di una magica autorevolezza e capace di adeguarsi al drammatico (per l’uomo) principio della trasformazione: «in natura una vita / accondiscende all’altra / se ne sta nel proprio peso / e si possiede nel lasciarsi andare». É in fondo a questo passaggio di consegne che non si arrende il singolo individuo. E se il vento, mutando e consumando, non demolisce mai nulla del tutto, l’occhio «solidale si sottrae» da questo spettacolo e «torna in sé / dove lo sguardo degli scomparsi continua a raggiungerlo». Perché se c’è qualcosa che separa l’uomo dalla natura è proprio il fatto che l’individuo «tutto riporta a ragione e memoria». La natura trasforma, l’uomo ricorda e sostanzialmente coglie nel cambiamento quanto c’è di perdita.
Così se «il cielo senza pace variando ci sostiene», il poeta aggiunge che «laddove la natura si ritrae / sorge una chiesa: solo di sé partecipe / […] di sé riempie / la luce dei dormienti e degli affascinati / e in questa pausa è naturale vivere». É proprio la fissità la posa in cui si coglie l’umanità: gli «intagliati abitanti della casa» sono un corredo delle mura e «allontanano da sé cerchi concentrici, sempre più ampi / verso una quiete che alle piante assimila». Corpi che abitano la terra e paiono senza volto, eppure sono «testimoni / immutabili del mutamento. / Identità, frutto di varie vite, / dei tanti volti necessari a un volto». La quiete immaginata e non reale è il breve lasso di tempo del vivere individuale, riconducibile a un «monologo / alla città superfluo».
La poesia di Caporali è poesia filosofica, anche se procede per immagini e simboli. La raccolta ha una sua evidente struttura circolare e sottende una costante interrogazione sul senso dell’esistenza, in primo luogo il senso del nostro morire («Un vecchio che dimora pienamente tra le cose che l’attorniano / senza abbandonarle se ne va / ed ogni cosa dal suo corpo sfuma man mano che si allontana»).
La natura è ormai a noi tanto distante, a volte, che il tempo dell’eterno sembra appartenerci come se vivessimo costantemente in un sogno, in una società dell’uomo. Allora la morte ci raggiunge con più violenza e parlare della fine è toccare il tema scottante, impronunciabile. In queste poesie l’autore rappresenta una natura che scalza le pretese egoistiche e narcisistiche dell’io, insegna un’umiltà che è principio di uguaglianza e ricorda anche all’uomo tecnologico che la durata è nel passaggio delle consegne e la vita è un’ombra, in fondo forse nemmeno così feroce.

«Poesia», XVIII, 191, febbraio 2005


CASA BAGGER

di Idolina Landolfi

Poemetto per frammenti, dalla versificazione di innegabile, suggestiva sapienza, scritto dal poeta romano (ne ricordiamo Il mondo all’aperto, Empiria) durante un soggiorno in Danimarca, nella casa che fu del pittore Svend Bagger, morto nel 1978. Quattro incisioni del medesimo arricchiscono il volumetto a tiratura limitata della collana Tarsie diretta da Gianfranco Palmery, che presenta appunto «sequenze in sé compiute, con una loro esemplarità». Poemetto del vento, potremmo definirlo, nel senso della visione d’una natura (perché di ciò si tratta, le città restano remote nella distanza) in perpetuo mutamento («A smuovere i confini pensa il vento», è il primo verso del primo lacerto), in un trascorrere di luci e ombre, nello svariare di un cielo «senza pace», sotto cui gli esseri umani, «i posseduti dal vento», paiono assorti in un incantesimo, prigionieri di un sonno-sogno, ad essi stessi miraggio. Eppure roccioso è il fondo delle cose, i mille volti sono uno solo («Identità, frutto di varie vite, /dei tanti volti necessari a un volto» sono i versi di chiusura, speculari per contrasto all’incipit), e la natura tutta appare sottoposta a ferree leggi, ciascuna creatura ha assegnato il proprio posto, né può varcare «il limite». Che appare qui come qualcosa di rassicurante e invidiabile, al pari dell’eterna vicenda della natura, del suo svolgersi piano e ineluttabile, senza le forzature che appartengono all’uomo, né il suo sguardo inquinante, che «tutto riporta a ragione e memoria».

«Stilos», supplemento di «La Sicilia», 15 febbraio 2005

 

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