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Sonetti dal portoghese

di Elizabeth Barrett Browning

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Recensioni del libro Sonetti dal portoghese di Elizabeth Barrett Browning

 

ELIZABETH BARRETT BROWNING – SONETTI DAL PORTOGHESE

di Antonio Pane

La impagabile biografia di Virginia Woolf non ci dice se l’araldico spaniel Flush fosse in grado di distinguere a naso, fra i manoscritti della sua signora, la poetessa Elizabeth Barrett, i Sonetti dal portoghese, della cui composizione era stato l’unico testimone e del cui segreto, per tre anni, il solo depositario. Pur sprovvisti di quell’organo portentoso, lettori di varie generazioni hanno agevolmente scorto nell’opera il capolavoro dell’autrice e uno dei più suggestivi poemi d’amore di tutti i tempi.
Il testo è il sismografo di una passione da manuale romantico, giunta a una fanciulla quarantenne, reclusa dall’adolescenza in un mondo di sogni e libri, con il volto sognante e ostinato di un poeta. Ma, prima della vicenda visibile – con il vieto corredo di lettere, doni, tremori, proteste, trionfi – riverbera mirabilmente il chiaroscuro di un’anima, balenante nel gioco di due solidi blocchi tematici: il motivo della luce, screziato di gale cristalli porpore ori gemme, e proteso alla grazia, alla ricchezza, alla felicità e al potere dell’uomo; e il motivo dell’ombra, gremito di immagini funebri (cipressi, uccelli notturni, sepolcri, lacrime, abissi), che adibisce il dolore, lo sconforto e la miseria (di «vecchia viola scordata», di «tessuto pallido e smorto») della donna. In questo contrappunto tutto sommato convenzionale circola infatti, sotterranea e indomita, una terza voce, un controcanto di fierezza, una tenace rivendicazione che ne incrina la prevedibilità, restituendolo al dominio della vita. È la voce che osa annunciare come «rosse selvagge faville ardono fosche / nel grigiore di cenere»; che rifiuta di «dare la prova / dell’amore nascosto, inaccessibilie»; che insomma, nel momento di arrendersi, porta orgogliosamente in dote, carne e spirito, la propria differenza. Di questa coraggiosa novità l’autrice fu talmente consapevole che indugiò a lungo prima di rivelarla. E non solo, crediamo, per ragioni di riserbo. Il suo monumento aere perennius all’amato (frutto insolitamente felice della felicità, ardore bruciato senza residui nello stampo breve del sonetto, del tutto privo, secondo un’opinione critica consolidata, delle sbavature formali e sentimentali di altre opere) testimoniava un’irrimediabile distanza: «Invece a te / io guardo, a te, vedendo con l’amore / la fine dell’amore, e al di là della memoria / ascoltando l’oblio; come chi in alto / sieda e fissi, oltre i fiumi, il mare amaro». Da questo mare di solitudine, da questa distanza possiamo ancora ascoltarla, sentirla fraternamente vicina.

«Oggi e domani», XXIX, 10, ottobre 2001

 

 

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