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Recensioni della rivista «Arsenale»

 

Poesia - Vita nell’arcipelago delle riviste di Attilio Lolini

Un convincente debutto è il numero zero di «Arsenale», rivista diretta da Gianfranco Palmery, che unisce alla grafica raffinata e un po’ desueta un sommario fitto di proposte molto interessanti come Versi vacanti, di Giorgio Caproni, Due Sonetti, di Edoardo Cacciatore e prose firmate da Vincenzo Consolo e, nientemeno, da Frederick Rolfe, detto il Baron Corvo, in una bella traduzione curata da Teofilo Belz.
Di rilievo anche sei poesie di Marcel Proust, tradotte da Luciana Frezza e Note su Baudelaire, di Jules Laforgue, nella traduzione di Gianfranco Palmery.

«Il Manifesto», 8 febbraio 1985


Una «cometa» tutta da leggere a cura di Antonio Debenedetti

Stanno nascendo, o sono appena nate a Roma, numerose riviste di cultura. «Arsenale», che è al terzo fascicolo, merita una segnalazione. Provocatoriamente allineata nel gusto e nella tradizione della letteratura, questa rivista, diretta da Gianfranco Palmery, ricerca con coerenza il «tono basso». Mescola, al dunque, nei suoi eleganti ma come sussurrati sommari, nomi da antologia (in passato Caproni o Brandi, adesso Borges e Betocchi) con nomi di militanti (Iolanda Insana) o di emergenti (Gilberto Sacerdoti e Alberto Di Raco).

«Corriere della Sera», giugno 1985


Passiamo in rivista di Mario Fortunato

La rivista «Arsenale», diretta da Gianfranco Palmery, si occupa in prevalenza di poesia, ma come «forma di conoscenza», in opposizione a una cultura della conservazione e del consumismo. Una poesia intesa quindi come luogo deputato al porsi le domande radicali che riguardano la nostra etica, il nostro linguaggio, il nostro sapere. «Più che una rivista di tendenza, la nostra è una pubblicazione di riflessione.», spiega il poeta Valerio Magrelli, che fa parte della redazione di «Arsenale», «Perfino la composizione redazionale è molto variegata».

«L’Espresso», 16 febbraio 1986


L’arsenale, la lengua. Alla ricerca della buona letteratura di Attilio Lolini

Il nuovo numero di «Arsenale», rivista trimestrale di letteratura diretta da Gianfranco Palmery, presenta non poche «sorprese» tra le quali un nuovo brano tratto da un capitolo de La camera da letto, il romanzo in versi di Attilio Bertolucci, e poesie di Fernanda Romagnoli sotto il titolo Mar Rosso. Notevoli anche gli inediti di Bianca Garufi e di Giovanna Sicari, mentre un doveroso omaggio al poeta inglese Philip Larkin è costituito dalla traduzione di Gilberto Sacerdoti di una bellissima prosa, Il principio del piacere.
Oltre alle poesie: («in ognuna c’è un piccolo midollo spinale di pensiero, e ciascuna ha la sua piccola melodia propria»), Larkin scrisse due romanzi, pagine di critica, e perfino un libro sul jazz.
Da segnalare in questo numero (che è doppio) L’attesa e la noia, di Ginevra Bompiani, e i Sonetti di John Berryman tradotti da Gianfranco Palmery.
La rubrica Escario che comprende «brevi riflessioni, moralità, note critiche» e in una parola «le altre scritture», è tra le «invenzioni» più interessanti della rivista che si segnala, oltre che per l’accuratezza grafica, per recensioni ad alto livello firmate da Valerio Magrelli, Sergio Quinzio, Domenio Vuoto e Sandra Petrignani.

«L’Unità», 25 marzo 1987


Poetica geografia dei silenzi del cuore di Stefano Crespi

La stimolante rivista romana di poesia «Arsenale», nel numero 7-8 pubblica un’inchiesta a più voci sul tema Poesia e Preghiera. Sono balenanti percorsi di alcune presenze poetiche: «La notte è il tempo del delirio e della solitudine...» (Domenico Vuoto); «Dalla finestra interiore del poeta, penetra un mare illimitato, da cui egli, stordito, attinge cose lontane, dimenticate...» (Giovanna Sicari); «La poesia nasce dal silenzio (e va verso il silenzio), esiste tuttavia solo come parola, ed esiste nel momento in cui incontra il mondo...» (Gianfranco Palmery).

«Il Sole 24 Ore», Domenica 13 marzo 1988


«Arsenale» onora Betocchi, di M. C.

Una quarantina di pagine di prose, ritratti, poesie, dedicati a Carlo Betocchi, formano nella bella rivista «Arsenale», n. 11-12, il contributo a tutt’oggi più generoso su questo che va risaltando come uno dei più profondi e solidi e schietti poeti dell’ultimo mezzo secolo, e non solo in Italia. Betocchi è due volte caro ad «Erba d’Arno»: sia come figura morale, combattutissima e trasparente, forse unica, di anacoreta fuori dai recinti letterari; sia come cantore indìgete, i cui scritti obliterati o inediti costituiscono per noi un patrimonio spirituale, che andiamo via via rendendo pubblico. Delle due prose betocchiane in apertura di numero, additiamo come bellissima e ineludibile la prima, I vecchi e la morte; letta la quale, se possibile si accresce il disgusto – etico, estetico – per le mareggiate di ciance che l’editoria, e anche le belle riviste, ci riversano addosso col, reso sacrilego, nome di poesia.
Raccogliamo qui in un canestrino quelle citazioni della cui particellare ma addensata verità non vogliamo resti digiuno il nostro lettore, scusandoci per il molto ed ottimo che rimane sui rami.
«[...] In questi ultimi anni vi è stata una diffusa svendita di triadi e qualche prova di congedo per scuole e correnti: lievi smacchi per lo spirito catalogatore, piccoli rivolgimenti che per ora non mutano l’assetto di tante precoci e imprecise storie letterarie; eppure annunciano, oscuramente, qualcosa – che è poi la solita cosa, l’eterna e semplice verità e perciò sempre trascurata: l’inevitabile deperimento delle opere che ebbero per sé il presente, la dispersione delle linee egemoni, che poco o nulla hanno a che fare con la vita profonda e durevole della poesia... [...]» (dalla prefazione redazionale).
«[...] Due cose gli avevano fatto ombra – e l’ombra può essere anche refrigerante né Betocchi cercò mai le piazze assolate e affollate –: la sua professione cattolica e la sua toscanità. [...] Negli anni Sessanta tutti gli intellettuali di primo pelo dicevano di amare Scotellaro, ma nessuno da Roma in giù sapeva chi fosse Betocchi. [...] Il toscano e il fiorentino non hanno interpretato né la civiltà industriale né la questione meridionale, che sono stati i temi fittizi, intellettualistici di tanta letteratura del Novecento. Betocchi fu toscano in questo: che non assunse mai l’immagine dell’intellettuale, del bene informato, di colui che sa in che direzione si muove la storia, e magari le azioni della Fiat. [...] Non era un uomo moderno; ma essere moderni significa anche avere il gusto dell’effimero, valorizzarlo, amarlo, e Betocchi semmai sentiva l’effimero nell’eterno. [...] In una intervista a Valerio Volpini aveva detto: “Cominciai coi primi canti a dire il meno che potessi di me e il più che potessi dell’ignoto essere che mi circondava”. E in fondo la poesia è proprio questo: parlare di ciò o di Colui che non si conosce. Betocchi lo ha fatto per tutta la vita.» (L. Baldacci).
«[...] Accanto alla religiosità dobbiamo introdurre un altro elemento nella poesia betocchiana: quello della luce. La luce è una costante della poesia religiosa, almeno da Dante in qua. Ma la luce betocchiana non nasce soltanto dalla religiosità del poeta, nasce anche dalla sua toscanità, da una disponibilità, cioè, a contattare la realtà visivamente e non concettualmente, da quella esigenza di concretezza, di essenzialità e di rapporto diretto con le cose che sono le caratteristiche di tutta una tradizione artistica della Toscana, del suo preponderante cromatismo e, nello stesso tempo, del suo lucido e trasparente senso del razionale. [...]» (P. Civitareale).
Circa Realtà vince il sogno del 1932: «[...] Fu reazione libera e non programmata al desertico e negativo manierismo ungarettiano e montaliano, alla lussuosa e arcana retorica dello sfacelo e della catastrofe; quindi, restituzione del canto italico, intimo e scenico-popolare, con ritmi brevi, rapidi e chiusi di grazia-tremore [...]» (O. Macrì).
«La forma chiusa è la forma della fede – ed è la fede della forma: forma dell’opera che corrisponde alla forma del mondo e dell’uomo, che non sono aperti né tantomeno liberi.
Se il poeta lima e perfeziona la sua forma, è per mostrarsi degno del dono agli occhi di Dio; non per l’occhio del mondo o, almeno, se non in quanto è esso stesso parte di Dio, sua opera... [...] Egli sa da subito che salvare la forma, in poesia, equivale a salvare la forma profonda dell’uomo.
[...] Operare con libertà all’interno del limite: questo è elezione, eleganza – e cioè liberazione, scioglimento del legame, che prima va però riconosciuto e accettato in quanto tale: naturale e sacro; questo è lo stile [...]». E sulla sua crisi religiosa degli anni estremi: «[...] La fede allora, come la poesia, perde la sua forma, prende un’altra forma [...]» (G. Palmery).
Di F. Tentori riportiamo assolute due sue citazioni da Betocchi: «... e solo / un brillare di verità, / alte stelle, mentre / bisbigliano gli uccelli». E: «La tua mente illusoria rifiutala / se non ha altri argomenti che te: / e il tuo cuore, se non ha che i tuoi / lamenti». Conclude: «Ritratti di sé, Betocchi ne ha sparsi a piene mani nella sua poesia, che è, anche quando non vuole o non sa d’esserlo, tutta intera un autoritratto. Uno di essi basti, per accomiatarsi dalla sua cara ombra:

Lasciai l’arte per l’anima,
e al crollo silenzioso
del vivere invisibile
ancora una volta
un toscano senza pianto
s’inoltrò sulla soglia dell’Ade.

«Erba d’Arno», n. 38, autunno 1989


Bibliografia critica

Antonio Debenedetti, «Corriere della Sera», 6 dicembre 1984.
Stefano Giovanardi, «La Repubblica», 13 dicembre 1984.
Attilio Lolini, «Il Manifesto», 8 febbraio 1985.
Doriano Fasoli, «Il Manifesto», 13 aprile 1985.
F. G., «Rivisteria», maggio 1985.
Antonio Debenedetti, «Corriere della Sera», giugno 1985.
Mimmo Gerratana, «Giornale di Sicilia», 7 gennaio 1986.
Riviste / Prima pagina – Arsenale, «Gazzetta del Mezzogiorno», 10 gennaio 1986.
Mario Fortunato, «L’Espresso», 16 febbraio 1986
R. S., «Il Piccolo», 4 luglio 1986.
Gianna Sarra, «Alfabeta», febbraio 1987.
Attilio Lolini, «L’Unità», 25 marzo 1987.
Giuliano Manacorda, in Letteratura italiana d’oggi, 1965 – 1985, Editori Riuniti, Roma 1987.
Attilio Lolini, «L’Unità», 20 febbraio 1987.
Marco Caporali, «L’Unità», 15 luglio 1987.
Stefano Crespi, «Il Sole 24 Ore», 13 marzo 1988.
Antonio Debenedetti, «Corriere della Sera», 11 aprile 1988.
St. S., «L’Unità», 14 giugno 1988.
Intervista a Vincenzo Anania, «L’Unità», 18 aprile 1989.
Alberto Maria Moriconi, «Il Mattino», 16 ottobre 1989.
M. C., «Erba d’Arno», n. 38, Autunno 1989
Sergio Pautasso, in Gli anni Ottanta e la letteratura, Rizzoli, Milano 1991.
Roberto Deidier, in Le regioni della poesia, Marcos y Marcos, Milano 1996.
Enrico Pulsoni, intervista a Nancy Watkins, «Insula europea», 1 giugno 2015

 

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