IL LABIRINTO
Recensioni del libro

L’oro ereditato

di Annelisa Alleva

home libri autori videoclip edizioni
L’oro ereditato

Il libro

Videoclip

 

Notizie sull'autore

Annelisa Alleva

 

Dello stesso autore

Lettera in forma di sonetto

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Recensioni del libro L’oro ereditato di Annelisa Alleva

 

UN DIARIO PRIVATO TRASFORMATO IN CANTO

di Franco Marcoaldi

È come una malia: soltanto nella distanza, nell’assenza, il discorso amoroso riesce a prendere corpo. Soltanto quando l’amato compare in sogno e si fa ombra, fantasma, mostra la sua natura vera. Di più, e più dolorosamente: soltanto ora che quell’uomo è morto, chi scrive riesce a comprendere la qualità del proprio e dell’altrui sentimento: «Ma non potevo arrivare a crederlo prima? / Rifarmi una pelle nuova, più sicura? / Avrei potuto, così, amarti ancor più, / essere meno furente, fumigante, addolorata».
Nelle poesie di Annelisa Alleva – un diario privato che si trasforma magicamente in canto e perciò stesso nell’oro cui allude il titolo – l’amore è tema centralissimo (in particolare nella struggente sezione Per il sosia, dedicata ad un poeta che era assieme «figlio, madre, maestro, amante»). L’amore è un tema centralissimo perché di qui passa qualunque conoscenza e rapporto con il tempo e il proprio corpo. I versi di Alleva giostrano con sapienza tra l’ascesi del tono vocativo e una quotidianità intrisa sempre di venature metafisiche; tra un passato abissale e l’osservazione allarmata del presente: «Ora i miei fianchi / sono nido d’altri pianti». Poeta del dettaglio e della narrazione, dell’introspezione e della visione, Alleva trova nella Dickinson e nei pietroburghesi – come lei stessa ci ricorda – le stelle polari della sua ricerca e della sua scrittura.

«La Repubblica» – 14 gennaio 2002


SU L’ORO EREDITATO

di Paolo Maccari

«L’oro è... ereditato, potrei dire, in parte geneticamente da un nonno di mia madre, uno scrittore e critico musicale napoletano, in parte dall’incontro con un poeta, che si è sviluppato nella distanza, ora resa definitiva dalla morte»: cosí nella Notizia che chiude il suo nuovo volume di versi Annelisa Alleva ne giustifica la scelta del titolo. L’oro ereditato sarà dunque da intendersi come figura dell’attitudine alla poesia, dell’impulso alla confessione scritta; una materia preziosa, scintillante, che viene ricevuta da altre mani, trasmissione di una dote che è anche – soprattutto – una nuova, emozionata e emozionante, qualità dello sguardo.
Gran parte delle liriche che compongono la raccolta (divisa in quattro sezioni: Dettagli al vocativo, L’oro ereditato, Per il sosia, Nido di altri pianti) si rivolgono a un tu che non assolve alcun ruolo d’«istituto» e nemmeno potremmo dire che «i tanti sono uno»; l’amata seconda persona chiamata di continuo in causa resta con persistenza ancorata alla sua identità, anche quando la morte rende incolmabile e diversa la distanza tra i due.
Una volta che la baluginante vitalità dell’amato si converte in silenzio definitivo, il dialogo procede in una sorta di diario sul quale vengono appuntate le occasioni, i dettagli minimi di una fedeltà che travalica il dato spirituale per farsi, come accennavamo, percezione della realtà, modalità di reazione al variare dei fenomeni e degli oggetti: «Davanti a un duomo, a un’abbazia che in vita / non avevi visto, ti ho pensato, e li ho fissati / coi tuoi occhi, cosí avidi e capaci di bellezza. / Quest’omaggio ti feci. Tu sollevavi piano lo sguardo, / e timoroso che l’abbaglio potesse darti il capogiro, / con una mano ti paravi la fronte, grato».
Se l’impresa della memoria e il riconoscimento di un legame che non patisce allentamenti ridonano allo strazio della perdita una sempre nuova, dolorosa attualità, un tale lascito consente quantomeno, una volta che si apre la strada del canto, di vivere l’assente con un’intensità – e una complessità di emozioni che sarebbe negata al semplice ricordo. Con una pronuncia che predilige i modi discreti di un’aggraziata colloquialità (peraltro impreziosita da una tessitura fonica elaborata, sebbene dissimulata in rime al mezzo e in assonanze), l’Alleva costruisce il suo canzoniere, ricco di episodi toccanti, assecondando una sensibilità femminile avulsa da qualsiasi filtro intellettualistico: l’effusione sentimentale procede liberamente, spudoratamente (e nella menzionata Notizia si parla infatti di una poesia «senza tacchi né trucchi. Pura. Spudorata.»): «[...] A chi è scorticato brucia anche la seta, anche un bacio. / E così la tua morte oggi mi brucia. / Troppo presto, troppo all’improvviso, / senza dirmi niente [...]. / è inutile che evochi le mie lacrime dal ciglio. / Il riverbero della tua fiamma oggi mi brucia».

«L’immaginazione», febbraio 2002


L’ORO EREDITATO

di Idolina Landolfi

Suddiviso in quattro tempi (Dettagli al vocativo, L’oro ereditato, Per il sosia, Nido di altri pianti), questo sesto libro di Annelisa Alleva (il primo, Mesi, è del 1996) comprende testi scritti nell’arco di vent’anni, e rappresenta a mio avviso un punto d’approdo del fare poetico dell’autrice, che in esso raduna ed esempla le tematiche più sue, dal senso inquieto del tempo, paventato nemico, macinatore di vite, al canto inerme degli affetti, o a quello ancor più inerme delle passioni, che baluginano come oro dal fondo lacustre di queste liriche, e che di tanto in tanto, sfidando ogni fisica legge, affiorano all’impietosa luce diurna. Oro funesto, talvolta, e talaltra libero generoso elemento, cui si affida il segreto di sé, la parte meno umana della propria natura.
Slavista, allieva di Ripellino, al quale ha dedicato articoli e saggi, traduttrice di Puskin (Romanzi e racconti, Garzanti) e di Tolstoj (Anna Karenina, Frassinelli), e, negli ultimi tempi, di poesia russa contemporanea, la Alleva molto deve, nelle sue liriche, alla lezione dei russi, dai classici dell’Ottocento all’Achmatova, alla Cvetaeva, a un certo Majakovskij. Poesia, dunque, che si oggettiva, concretizzandosi in immagini, in precisi dati spaziali, in gesti compiuti e non solo sognati; che, in una parola, rifugge, o intenderebbe rifuggire, dall’astrazione. Poesia «di servizio», anche, per la sua autrice; utile a comprendere, ripercorrendo sentieri usati, traendo dal continuo fluire una goccia, una frazione di tempo altrimenti imprendibile, e indecifrabile. E così facendo la trasfigura, naturalmente, le conferisce un diverso statuto di realtà, in un perpetuo gioco di rispecchiamenti, di trasfigurazioni di sé e dell’altro. La ricerca del travestimento, della maschera è così ciò che di primo acchito salta agli occhi; come fosse, ogni frammento, una minuscola messinscena, un microteatro dell’io ogni volta dalla prodigiosa novità. E oggi si è amanti sottomesse e devote, donne dai nomi inventati (Anna Gatti), domani eroine di romanzi, la Tat’jana dell’Onegin, o la Cécile Volanges delle Liaisons dangereuses… «Oggi, ti prego, giochiamo a fare / tu lo zar Ivan, io il principe Kurbskij…».
Gioco rischioso sovra tutti, in cui si rischia, cioè, di smarrirsi, forse per sempre: e qui soccorre la scelta dello stile, quello scorrere piano dei versi, il loro tono sussurrato e il personaggio, l’interlocutore, al quale in tante liriche ci si rivolge col «tu»; in un inesausto dialogo con l’assente, o comunque con chi è sentito di noi maggiore, in certo senso una figura genitoriale, dalla quale la nostra parte bambina pretenderebbe accettazione assoluta, e infinita cura. Ma il sapiente è spesso insensibile, gretto, non ha occhi né orecchie: e colei che scrive vorrebbe farsi piccina, tanto da entrargli nel taschino. Oggetto tascabile, quasi invisibile, metamorfosi estrema che è quasi morte: per amore, per sfinimento d’amore.

«Alias» – «Il Manifesto», 20 aprile 2002


SANGUE E INCHIOSTRO

di Gianfranco Palmery

«Tu lavori nell’oro.», scriveva Sbarbaro a Barile, «Io lavoro invece in una materia vile che ce ne vuole a farla un po’ luccicare». Anche Annelisa Alleva non lavora nell’oro: la sua è una materia che risponde alle forme opache e passeggere della terra, a pelle, sangue, cibo, lenzuola... lavorate strenuamente nella scrittura come fossero, o fino a farne, un aureo assoluto.
Questo però riesce perché dietro c’è altro oro: l’oro che il poeta eredita nascendo, quello che negli anni di dedizione acquista, e, soprattutto, quello che perde: tutte le petizioni edeniche salgono dagli inferni della perdita. Se l’alchimia lulliana postulava l’oro a partire dal piombo, la chimica del poeta parte dal sangue e dall’inchiostro. Al sangue possiamo dare anche un altro nome: necessità. Senza ferita non c’è necessità – e non c’è sangue senza ferita... Lo spellato, lo scorticato, l’arrostito («Ero un arrostito vivo accanto a te», recita in un attacco memorabile una di queste poesie), o, mi pare sia in Rilke, la lumaca senza guscio – pelle viva –: ecco delle realistiche raffigurazioni del poeta.
Scorticature, ustioni e ferite possono essere anche autoinflitte – ma questo vuol dire semplicemente, prevenire il mondo... Insomma, la necessità necessita tutto quel che al poeta accade: l’amore infelice come le pene e le gioie di una clausura.
Anche l’inchiostro ha un altro nome, altri nomi: sapienza, consapevolezza, riflessione sulla forma... Senza sapienza non c’è necessità che non vada perduta: la necessità è la verità del poeta, della poesia – ma si tratta alla fine di fare, per mezzo della sapienza, della verità invenzione... L’oro della poesia, che dopo ogni turbolenza chimica brilla quietamente, è verità inventata.
Di sangue, e anche di lacrime, queste poesie sono robustamente irrigate – nessun pericolo di siccità:

Tu entrasti a cascata, evento puro.
Le rupi fecero sangue, gengive
scavate dal bisturi (p.29)

oppure

[...] Lacrime sul dondolo, immobile,
sdraiata, formano una piscina nella cavità
oculare; quando mi volto cadono tutte assieme,
come da un secchio rovesciato. (p. 50)

Queste sono immagini / invenzioni che Laforgue avrebbe definito yankee – cioè mirabolanti, estreme: crude e di una razionalità fisiologica, ma anche meravigliosamente visionarie; vogliamo vedere in esse il segno di un vivo, rinnovato barocco?
Io non ho dubbi: segni se ne trovano ovunque nella sua poesia, e prove potrei portarne ad apertura di pagina: è un tratto radicale non riducibile a quella vocazione all’iperbole che si usa riconoscere all’io amoroso; tant’è che lo si può riscontrare anche in uno scorcio di mondana intimità come questo:

Dentro il vestito di seta largo in vita
delle nozze, le amiche nascondono
un piccolo che scalcia al ritmo
della campana di un villaggio (p.38)

«Un piccolo che scalcia al ritmo / della campana di un villaggio»... Mettere insieme un feto vivo e una campana squillante: questo è ardito, ardente barocco; non un feto morto e una campana di vetro: questo è stato crepuscolarismo... (E una conferma alla genealogia barocca verrebbe, a seguire Dors, da quella parola, e realtà, fuori d’uso in un poeta odierno e cittadino: villaggio; per Dors infatti il barocco è campestre, il suo dio è Pan; non è cristiano, è radicalmente pagano, ha a che fare con il pagus, col villaggio).
E però notiamo come l’immagine outré, e insieme familiare, sia contenuta con fermezza nella precisione descrittiva, («il vestito di seta largo in vita / delle nozze...»), nel respiro, nel passo metrico, così, diciamo, corrispondente, di due stretti e elastici novenari. Immagini esorbitanti e ratio costruttiva dicono il diritto di appartenenza di questa poesia alla famiglia del barocco – e la rivelano anche armata di un’alta e bella retorica: ossia la forma giusta e sapiente della sua verità. Cos’è una poesia senza lo scintillio della retorica? La retorica è l’armatura, la corazza dura e lucida, la forza di quella che passa per la «debolezza» del poeta: la sensibilità; una poesia priva della retorica rivela una presunzione muscolare incompatibile, oppure si affida a un’altra retorica, quella del primo getto, per esempio, o dell’ingenuo, ecc.
Questa comunque non vuole essere l’applicazione di una categoria come una schedatura; piuttosto il riconoscimento di un animus, quello barocco, in una poesia che, come tutto ciò che è ricco e vero, ha svolgimenti e vie di fuga, e non sopporta le restrizioni di formule definitorie. Nei suoi aspetti strutturali del resto potremmo scorgere anche il genio tutelare della poesia romana antica nel suo volto duplice: una rotondità elegiaca che si affila in acuminatezza epigrammatica.
Ma diciamo che questa è la poesia di un poeta d’amore, un poeta che canta i suoi oggetti d’amore con lucido abbandono e una tenerezza compressa – talora così compressa che può sboccare in invettiva, ironia, sarcasmo.
La pena splendente, o il doloroso splendore, di questi versi li fa deliberatamente estranei alla ortodossia del decorativo e dell’indolore – sono versi d’una oreficeria a tratti furiosamente impura, celliniana…
Un luogo comune vuole il poeta capace di rovesciare il canto dell’amore – felice o più spesso infelice che sia – in amore del canto: ed è vero, è la sacrosanta verità dei luoghi comuni; altrimenti ci sarebbe solo amore, che non si sa bene cosa sia, tanto aleatoria e multiforme è la sua natura, fluente, mutevole, e sta lì, fuori, abbandonato ai giorni; mentre il canto c’è e resta; e si può dire, noi abbiamo l’orecchio, se non il cuore, per dire: qui c’è canto – meglio, una vocalità drammatica che frequenta i toni alti e bassi, sa compitare staccati perentori, o distendersi in larghe frasi melodiche, e con i suoi acuti come con i suoi sottovoce può arrivare a toccare – a chi ancora presume di averne uno – appunto, il cuore.

«Pagine», XIII, 35, maggio-agosto 2002


Edizioni Il Labirinto